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Carlo Levi: dall’esperienza di confino al racconto delle “desolate terre di Lucania”

di Rocchina Filippo

Supervisione prof. Paolo Rondinelli

Carlo Levi: Cristo si è fermato ad Eboli

Cristo si è fermato ad Eboli è un romanzo di Carlo Levi, pittore e scrittore del Novecento che per la sua attività antifascista, fu confinato in Lucania dalle autorità dell’epoca, prima a Grassano e poi ad Aliano, paesino dell’entroterra lucano che egli nel libro chiamerà Gagliano, imitando la pronuncia del dialetto locale. Durante quel soggiorno Levi ebbe la possibilità di conoscere la realtà di quei luoghi, entrando profondamente in contatto con le condizioni di miseria vissute dai contadini. Levi rimase quasi folgorato da questa umanità remota tanto da iniziare una sorta di processo di conoscenza di sé stesso proprio a partire da ciò che conobbe in questo periodo della sua vita. È proprio ad Aliano, paese devastato dalla malaria e dalla povertà, che egli si rende conto che in questi luoghi la modernità sembra essere sconosciuta così come il messaggio cristiano. Viene a conoscenza anche del fatto che il sistema feudale medioevale, all’epoca superato di gran lunga nelle grandi città, è in realtà ancora radicato nella vita dei cittadini di questo piccolo borgo dove questi sono ancora divisi in contadini e proprietari terrieri, responsabili assoluti della povertà degli “ultimi”. Il confino ad Aliano sarà interrotto da un lutto familiare che costringerà l’autore a ritornare nella sua Torino e a rendersi conto di come l’esperienza di confino lo abbia profondamente cambiato. Sin da principio dalla parte dei contadini, una volta arrivato lì, Levi ha come scopo il raggiungimento di due obiettivi: denunciare le condizioni disumane di vita degli “ultimi” e descrivere questo mondo, questa civiltà arretrata ma ricca di storie, aneddoti, misteri che segneranno profondamente la vita dell’autore. Italo Calvino di lui scrive: «La peculiarità di Levi sta in questo: che egli è testimone della presenza d’un altro tempo all’interno del nostro tempo, è l’ambasciatore d’un altro mondo all’interno del nostro mondo. Possiamo definire questo mondo il mondo che vive fuori dalla storia di fronte al mondo che vive nella storia. […] È un uomo impegnato nella storia che viene a trovarsi nel cuore d’un Sud stregonesco, magico, e vede che quelle che erano per lui le ragioni in gioco qui non valgono più, sono in gioco altre ragioni, altre opposizioni nello stesso tempo più complesse e più elementari. […] In questo senso ho parlato di Carlo Levi come d’un ambasciatore del mondo “contadino” presso il nostro mondo urbano»[1].

1. Un poeta-pittore: Carlo Levi

Nel 1946, Fortunato Bellonzi scrive: «Levi non è un pittore che scrive ma uno scrittore che dipinge». La dichiarazione del critico suona come un pronostico su quello che sarà il vero successo dell’artista: la scrittura. Durante la permanenza prima a Grassano, e poi ad Aliano, a causa del confino, Levi dipinge quelle che saranno le sue opere più famose, circa settanta quadri che esprimevano le sue prime forme di interesse nei confronti della vita del mondo contadino.

2. La Lucania vista con gli occhi di Levi: tre dei suoi dipinti

La Santarcangelese L’opera risale al 1936 ed è conservata presso il Museo Nazionale di Matera. Nella protagonista è possibile riconoscere Giulia Venere, la governante di Levi spesso descritta in Cristo si è fermato ad Eboli, sia per le caratteristiche fisiche che per alcuni aspetti del carattere. Di lei l’autore scrive: «Era una donna alta e formosa con un vitino sottile come quello di un’anfora, il petto e i fianchi robusti, con gli occhi neri ed opachi, la bocca con le labbra sottili. (pp91).[1] Levi descrive anche i suoi modi di pensare e l’atteggiamento nei suoi confronti; infatti: «Se le chiedevo di posare non aveva mai tempo: capii che c’era qualche oscura ragione che la impediva… Capii allora che la sua ripugnanza aveva una ragione, ed essa stessa me lo confermò».
Un ritratto sottrae qualcosa alla persona ritratta, l’immagine, e, proprio per questa sottrazione, il pittore acquista un potere assoluto su chi ha posato per lui.
Dal dipinto emerge l’atteggiamento schivo della donna che tiene lo sguardo rivolto verso il basso, verso il figlio, tenuto in braccio come un Gesù Bambino tra le braccia di una Madonna lucana.

Lucania ’61

L’opera è interamente dedicata a Rocco Scotellaro, amico, scrittore, poeta e sindaco di Tricarico. Pallido in volto a causa della malaria, egli è ritratto al centro, circondato dalla sua gente; quella gente umile che non ha mai perso la speranza di poter ottenere una condizione di vita migliore. Nel dipinto si possono scorgere animali simbolici della vita contadina, come l’asino e le pecore. Significativa è inoltre l’attenzione riservata al paesaggio, caratterizzato dai tipici “calanchi” e dalle tristi abitazioni della povera gente comune.

La fossa del bersagliere

La fossa del bersagliere è uno dei dipinti in cui  si nota maggiormente l’adesione di Levi alla pittura del paesaggio del vero: egli sceglie come soggetto il dirupo che vede dal terrazzo della propria abitazione, mettendone in risalto le caratteristiche principali, come la presenza del terreno argilloso riscontrabile nei colori utilizzati. Osservando l’opera, emerge chiaramente la volontà di dare dignità artistica ai caratteri semplici e umili della terra che lo ospita. Di questa Levi scrive: “La Fossa del Bersagliere è piena d’ombre, e l’ombra avvolge i monti viola e neri che stringono d’ognintorno l’orizzonte. Brillano le prime stelle, scintillano di là dall’Agri i lumi di Sant’Arcangelo, e più lontano, appena visibili, quelli di qualche altro paese ignoto, Noepoli forse, o Senise. La strada è stretta, sulle porte stanno seduti i contadini, nel buio che sale. Dalla casa del morto giungono i lamenti delle donne. Un brusio indistinto mi gira attorno in grandi cerchi, e di là c’è un profondo silenzio. Mi par d’essere caduto dal cielo, come una pietra in uno stagno”. (p. 18)”.

3. Il tema del lutto nel Meridione

Durante il suo esilio lucano, Levi rimase fin da subito stupito dalla presenza, sull’uscio della maggior parte delle abitazioni di Gagliano, di veli neri simboleggianti i numerosi lutti che colpivano le famiglie e che dovevano essere mantenuti finché non fossero il tempo, le intemperie, il sole e la pioggia a farli sbiadire e quindi ad annullarli. La morte costituisce l’evento che nessuna civiltà può superare. L’uomo stesso, dinanzi alla morte, è impotente e quindi sente il bisogno di non tenere per sé il proprio dolore, ma di condividerlo con i propri cari. In un contesto come quello dei piccoli paesi della Basilicata la condivisione del dolore finisce per coinvolgere l’intera ristretta comunità. L’autore, infatti, scrive: “Verso l’alba il malato di avviò alla fine. Le invocazioni e il respiro cambiarono in un rantolo, e anche quello si affievolì a poco a poco, con lo sforzo di una lotta esterna e cessò. Non aveva ancora finito di morire che già le donne gli abbassavano le palpebre sugli occhi sbarrati, e cominciavano il lamento. Quelle due farfalle bianche e nere, chiuse e gentili, si mutarono d’improvviso in due furie. Si strapparono i veli e i nastri, si scompigliarono le vesti, si graffiarono a sangue il viso con le unghie e cominciarono a danzare a grandi passi per la stanza battendo il capo nei muri e cantando, su una sola nota altissima, il racconto della morte […] Era impossibile ascoltarla senza essere invasi da un senso di angoscia fisica irresistibile: quel grido faceva venire un groppo alla gola, pareva entrasse nelle viscere” (p.199).

La crisi individuale diventa un pianto collettivo che si manifesta attraverso i riti e le regole del lamento funebre. Ernesto De Martino, antropologo, storico delle religioni e filosofo italiano, interpreta questo fenomeno nel libro Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria, dove si comprende che i tratti più significativi del rituale descritto da Levi rivelano che la morte non può essere un fenomeno neutro e impersonale. Muovendo da un punto di vista antropologico e non letterario, De Martino analizza il fenomeno confrontando i riti lucani con quelli calabresi e sardi fino a giungere in Romania, alle frontiere del Caucaso. La conclusione a cui giunge il celebre antropologo è che le origini di simili riti risalgono all’antico Egitto, alla Mesopotamia e al mondo dell’antica Grecia.

4. La figura della donna per Levi: le donne di Gagliano

I contadini sono caratterizzati da una morbosità e da un attaccamento nei confronti delle cose materiali che permane in tutte le fasi della loro vita. Tale attaccamento morboso si riflette nell’atteggiamento che i contadini maschi adottano nei confronti delle donne. In loro è presente un sentimento di maggiore rispetto nei confronti della figura materna che nei confronti della propria moglie. Considerata un’utile proprietà, la moglie non solo si caratterizza per una forza paragonabile a quella di un mulo dedito al lavoro nei campi, ma anche per la possibilità di generare altra forza-lavoro. Il rapporto d’intimità è limitato alla procreazione e né al figlio maschio né alla figlia femmina viene data la possibilità di scoprire la propria personalità. La donna, esclusa da qualsiasi evento esterno al focolare domestico, acquista un valore simbolico, la cui massima espressione è rappresentata dalla verginità in cui è racchiusa la dignità del suo essere donna e, in secondo luogo, della famiglia da cui proviene. Il forte senso di pudore che caratterizza le donne meridionali è legato al fatto che, spesso, queste donne sono state costrette o quasi a vivere in una sola stanza, senza poter godere di uno spazio libero, di una “stanza per sé” – per citare Virginia Woolf – e al tempo stesso sono riuscite a tenere insieme la famiglia e a costruire un’eredità fatta anche di riti e tradizioni per le generazioni future. Di questo Levi scrive: “L’amore, o l’attrattività sessuale, è considerata dai contadini come una forza della natura, potentissima, e tale che nessuna volontà è in grado di opporvisi. Se un uomo e una donna si trovano insieme al riparo e senza testimoni, nulla può impedire che essi si abbraccino: né propositi contrari, né castità, né alcun’altra difficoltà può vietarlo; e se per caso effettivamente essi non lo fanno, è tuttavia come se lo avessero fatto: trovarsi assieme è fare all’amore. L’onnipotenza di questo dio è tale, e così semplice è l’impulso naturale, che non può esistere una vera morale sessuale, e neanche una vera riprovazione sociale per gli amori illeciti. Moltissime sono le ragazze madri, ed esse non son affatto messe al bando o additate al disprezzo pubblico: tutt’al più troveranno qualche maggior difficoltà a sposarsi in paese, e dovranno accasarsi nei paesi circostanti, o accontentarsi di un marito un po’ zoppo o con qualche altro difetto corporale. Se però non può esistere un freno morale contro la libera violenza del desiderio, interviene il costume a rendere difficile l’occasione. Nessuna donna può frequentare un uomo se non in presenza d’altri, soprattutto se l’uomo non ha moglie: e il divieto è rigidissimo: infrangerlo equivale ad aver peccato. La regola riguarda tutte le donne, perché l’amore non conosce età (p. 87)”.

La magia: la fascinazione e altri rituali

Levi è affascinato dalla conoscenza, da parte di Giulia, dei rituali che appartengono al mondo magico. De Martino parla del rituale della fascinazione, in dialetto lucano fascinatura o affascino. Con questo termine si indica una condizione psichica di impedimento e inibizione e al tempo stesso un senso di dominazione. Con il termine ‘fascinazione’ si designa anche la forza ostile che circola nell’aria. I sintomi tipici di questo “incantesimo” sono caratterizzati da cefalgia, sonnolenza, spossatezza, ipocondria e rilassamento. La fascinazione comprende un agente e una vittima. Quando l’agente è un essere umano, si parla di ‘malocchio’, un’influenza malvagia che consiste nello sguardo invidioso di qualcuno e può avere un impatto più o meno involontario[1]. Il rito della fascinazione si fonda su un cerimoniale eseguito da veri e propri operatori della magia, solitamente le donne anziane, depositarie del rituale. L’anziana signora inizia il rito facendosi il segno della croce, poi comincia a recitare la formula sottovoce facendo continuamente il segno della croce sulla fronte di chi dev’essere liberato da quel malessere. La formula si ripete dalle tre alle nove volte. Al termine di ogni strofa si recita un Pater, Ave e Gloria, tutto sottovoce. A seconda del momento in cui cade lo sbadiglio della fascinatrice – se durante il Padre nostro o nelle altre preghiere – si deduce il genere dell’autore o dell’autrice della fascinazione, e cioè di colui o colei che ha provocato la fascinazione. Se lo sbadiglio non arriva, se ne deduce che il mal di testa non è frutto di fascinazione.
Alcune fascinatrici, per non prendere il mal di testa su di sé, utilizzavano delle forbici o un coltello per segnare la fronte della vittima e, alla fine di ogni strofa, gettavano lo strumento a terra. A volte, a fine rituale, si metteva dell’acqua in un catino e l’affascinato doveva prenderla con una mano e portarsela per nove volte sulla fronte; successivamente doveva buttarla ad un incrocio di strade. Il primo o la prima che fosse passata di là avrebbe preso su di sé la fascinazione. La formula non poteva essere divulgata; le donne anziane, qualche volta, tramandavano questo rituale a una loro prescelta ma potevano farlo solo in occasione della domenica, del Natale e della Santa Pasqua. Levi scrive di Giulia dicendo: “Nella cucina più misteriosa dei filtri, Giulia era maestra: le ragazze ricorrevano a lei per consiglio per preparare i loro intrugli amorosi. Conosceva le erbe e il potere degli oggetti magici. Sapeva curare le malattie con gli incantesimi, e perfino poteva far morire chi volesse, con la sola virtù di terribili formule (p.93)”.
Appena arrivato a Gagliano, Levi viene avvertito dal podestà di non accettare bevande e cibi dai contadini poiché questi potevano metterci dentro un filtro ma l’autore non segue questo consiglio: “[…] ho affrontato ogni giorno il vino e il caffè dei contadini, anche se chi me lo preparava era una donna. Se c’erano dei filtri, forse si sono vicendevolmente neutralizzati. Certo non mi hanno fatto male; forse mi hanno, in qualche modo misterioso, aiutato a penetrare in quel mondo chiuso, velato di veli neri, sanguigno e terrestre, nell’altro mondo dei contadini, dove non si entra senza una chiave di magia (p. 14)”.
Una delle peculiarità di Carlo Levi risiede nel fatto che egli non si è mai rifiutato di ascoltare e di far proprie le credenze dei contadini lucani: «Alcuni assumono questa mescolanza di umano e di bestiale soltanto in determinate occasioni. I sonnambuli  diventano lupi, licantropi, dove non si distingue più l’uomo dalla bestia»2 (pp.99). Nonostante esercitasse la professione del medico, Levi non ha mai vantato una presunta superiorità borghese. Si è sempre anzi preoccupato che la cultura contadina venisse preservata e ha mostrato un sincero e umano interesse verso le persone più umili.
L’autore ripone particolare attenzione anche nei confronti dei riti sacri che i contadini riescono comunque a trasformare in una sorta di riti pagani. Egli infatti scrive: “Nel mondo dei contadini non c’è posto per la ragione, per la religione e per la storia. Non c’è posto per la religione, appunto perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto è magia naturale. Anche le cerimonie delle chiese diventano dei riti pagani, celebratori dell’indifferenziata esistenza delle cose, degli infiniti terrestri dei del villaggio (p. 102)”.
I contadini ripongono totale fiducia nella Madonna Nera di Viggiano, tuttora elemento cardine delle tradizioni sacre lucane festeggiata due volte l’anno: la prima domenica di maggio, quando dalla Basilica sita in Viggiano, il simulacro della Vergine si muove in una lunghissima processione a piedi verso il Sacro Monte dove, nel santuario a Lei dedicato, vi resterà per tutta l’estate e la prima domenica di settembre quando dal Monte ritorna in paese. È un pellegrinaggio che coinvolge circa 50000 fedeli che ogni anno si recano in questa cittadina per onorarla. È una tradizione che va avanti da secoli tanto da essere stata insignita da Papa Giovanni Paolo II del titolo di Regina delle Genti lucane. Leggendo il romanzo, si evince che questa festa rappresentasse anche all’epoca una parte dei riti sacri del tempo tanto che i contadini di Gagliano ne avessero riprodotto una copia modesta e la festeggiassero anche nel loro paese. Egli infatti scrive: “Eravamo alla metà di settembre, la domenica della Madonna. Fin dal mattino le strade erano piene di contadini vestiti di nero, c’erano dei forestieri, i musicanti di Stigliano e gli artificieri di Sant’Arcangelo, venuti a disporre le bombe e i mortaretti. […] Il pomeriggio, dopo le ore del caldo, cominciò la processione. Uscì dalla chiesa e percorse tutto il paese. […] Su un baldacchino retto da due lunghe stanghe, portato a turno da una dozzina di uomini, veniva la Madonna. Era una povera Madonna di cartapesta dipinta, una copia modesta della celebre e potentissima Madonna di Viggiano e aveva, come quella, il viso nero: era tutta coperta di abiti di gala, di collane e di braccialetti. […] Non si vedeva, negli occhi delle persone, felicità o estasi religiosa, ma una specie di follia, una pagana smoderatezza, e come uno stordimento a cui si lasciavano andare. Tutti erano eccitati. […] Sugli usci di tutte le case i contadini aspettavano la processione con in mano un cesto di grano, e al suo passaggio ne buttavano piene manciate sulla Madonna, perché si ricordasse dei raccolti e portasse la buona fortuna. […] La Madonna dal viso nero, tra il grano e gli animali, gli spari e le trombe, non era la pietosa Madre di Dio, ma una divinità sotterranea, nera delle ombre del grembo della terra, una Persefone contadina, una dea infernale delle messi”(pp. 102-104).
In ogni abitazione dei contadini vi è un’immagine della Madonna Nera che, con il suo sguardo, assiste e protegge i suoi fedeli. Infatti egli dice: “La Madonna nera non è, per i contadini, né buona né cattiva: è molto di più. Essa secca i raccolti e lascia morire, ma anche nutre e protegge: e bisogna adorarla. In tutte le case, a capo del letto, attaccata al muro con quattro chiodi, la Madonna di Viggiano assiste, con i suoi grandi occhi senza sguardo nel viso nero, a tutti gli atti della vita (p.106)”.

Il mimetismo linguistico di Levi

Levi si ritrova catapultato in una realtà in cui la gente non conosce l’italiano e la percentuale di analfabeti è pari al 90% della popolazione. Nel saggio “L’Italia linguistica dall’Unità all’età della Repubblica”, Tullio De Mauro afferma che in quel periodo le stime fanno ascendere al 2,5% la popolazione in grado di usare attivamente l’italiano e al 6 o 7% (secondo Giacomo Devoto) o quasi al 10% (secondo Arrigo Castellani) la popolazione in grado di capirlo.6 E la stima non sorprende: al primo censimento dell’Italia unita il 78% della popolazione risultò totalmente analfabeta, in quegli anni l’istruzione elementare, dove c’era, garantiva soltanto una sommaria alfabetizzazione e l’istruzione postelementare, che poteva portare all’uso della lingua italiana, era riservata allo 0,9% delle fasce giovani. Le potenzialità d’uso della lingua nazionale erano state e restavano consegnate alle sorti della scuola. In realtà in quegli anni la scuola, anche a causa di politiche a svantaggio di essa, non riuscì a fare molto e, per questo, il tasso dell’analfabetismo rimase comunque alto. Tutto ciò è evidente anche in Cristo si è fermato ad Eboli dove l’autore si rende sin da subito conto delle condizioni di arretratezza scolastica e culturale sia degli adulti ma in particolare dei bambini, i quali frequentano pressocché poco la scuola del tempo. Quindi egli impara a conoscere il loro dialetto, anche se in Cristo si è fermato a Eboli non se ne trovano tracce consistenti. Quando impiegate, le espressioni dialettali vengono spiegate subito dopo o quasi. Ad esempio: «Addo vades?», che significa: «Dove vai?»; e «Nint», cioè: «Niente». Infatti scrive Levi: “Io pensavo a quante volte, ogni giorno, sentivo usare questa continua parola, in tutti i discorsi dei contadini – Nint – come dicono a Gagliano. Che cosa hai mangiato? – Niente Che cosa speri? – Niente […] (p.163)”.
Un’altra parola che colpisce il lettore è ‘”cristiano”’. Levi, riprendendo le parole dei contadini scrive: “Noi non siamo cristiani, – essi dicono – Cristo si è fermato ad Eboli. Cristiano vuol dire nel loro linguaggio uomo. […] Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma. […] (p. 1)”.
Da questa citazione emerge il fatto che i contadini subiscono le scelte politiche di chi si trova al di là dell’orizzonte ed è completamente disinteressato ai problemi di queste terre. Cristo qui sembra non essere arrivato davvero: sono terre vergini, non conquistate da nessuno, dove il ritmo lento della vita contadina caratterizza l’andamento delle stagioni dell’anno.


[1] Ernesto De Martino, Sud e magia, Milano, Feltrinelli, 2002.


[1] Le citazioni da Cristo si è fermato a Eboli sono tratte dall’edizione Einaudi del 1990.


[1] Da «Galliera», 3-6 (1967), pp. 237-40, a cura di A. Marcovecchio, numero monografico dedicato a Carlo Levi.