Un approfondimento sull’alimentazione nella cultura italiana
di Silvia Giovanardi
Il significato del termine “alimentazione”
Secondo l’Enciclopedia Treccani il termine alimentazione si riferisce “all’assunzione di alimenti che assicura la nutrizione, ossia l’insieme delle attività chimiche e fisiche che mantengono equilibrata e costante la composizione chimica dell’organismo. Tali attività, infatti, permettono la ricostituzione delle perdite materiali ed energetiche che consentono nei giovani la crescita o nelle gestanti le modifiche dell’organismo materno e lo sviluppo del feto. La nutrizione infine mantiene attive le difese biologiche e consente l’efficienza fisica e psichica dell’individuo”. Viene pertanto sottolineato il diritto e la necessità di nutrirsi correttamente al fine di una crescita fisica e mentale, di una vita in salute e ricca di energia.
L’importanza dell’alimentazione nella cultura italiana
L’Enciclopedia Treccani però non è l’unica fonte da cui è possibile intuirne l’importanza; infatti, secondo l’articolo 1 della nostra costituzione “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul… cibo.”. Per cui non solo si afferma la sua rilevanza dal punto di vista personale dell’individuo, ma anche nell’individuazione dei pilastri della cultura italiana. L’espressioni che utilizziamo quotidianamente ne sono un’ulteriore prova; “lui è un pezzo di pane”, “piangere sul latte versato”, “nella botte piccola c’è il vino buono”. Le metafore concettuali precedentemente nominate mettono in rilievo il collegamento diretto tra il concetto (come può essere quello di “persona buona”) e il cibo (il pezzo di pane in quanto tenero) che si instaura nella mente del soggetto. Il ragionamento è sostenuto anche dalla percezione che si ha dell’Italia all’estero; “pizza, pasta e mandolino” sono le prime tre parole a cui un turista penserà. La domanda che potrebbe quindi sorgere spontanea è “Come mai fra tutte le attrazioni visitabili, il primo pensiero è il cibo?”. Secondo dati statistici recenti il 70% dei turisti viaggia in Italia per il cibo, mentre soltanto il restante 30% cita l’arte e la cultura come motivazione primaria. La maggiore influenza è data dalla qualità delle materie prime e dell’autenticità dell’esperienza culinaria italiana. Infatti se si pensa alle regioni, ognuna di queste è in grado di offrire un’ampia gamma di piatti particolari e sapori da esplorare.
Il turismo enogastronomico
Di conseguenza, l’accessibilità e l’immediatezza dei prodotti alimentari favorisce il turismo enogastronomico. Quest’ultimo viene inoltre promosso dalla convivialità e dall’interazione, anche con persone locali, che mangiare presuppone. Se ci si prova a riflettere, anche nella nostra vita privata possiamo ritrovare questa emozione; quanto è rilassante sedersi a tavola dopo una lunga giornata e godere di una cena in famiglia? Quanta gioia trasmette il pranzo con tutti i parenti durante le festività? Cosa ci spinge ad organizzare una grigliata con i nostri amici il giorno di Pasquetta? È proprio la convivialità, la quale però può rappresentare un problema o un timore per chi decide di seguire una dieta.
L’importanza dell’alimentazione nella cultura italiana
L’Enciclopedia Treccani però non è l’unica fonte da cui è possibile intuirne l’importanza; infatti, secondo l’articolo 1 della nostra costituzione “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul… cibo.”. Per cui non solo si afferma la sua rilevanza dal punto di vista personale dell’individuo, ma anche nell’individuazione dei pilastri della cultura italiana. L’espressioni che utilizziamo quotidianamente ne sono un’ulteriore prova; “lui è un pezzo di pane”, “piangere sul latte versato”, “nella botte piccola c’è il vino buono”. Le metafore concettuali precedentemente nominate mettono in rilievo il collegamento diretto tra il concetto (come può essere quello di “persona buona”) e il cibo (il pezzo di pane in quanto tenero) che si instaura nella mente del soggetto. Il ragionamento è sostenuto anche dalla percezione che si ha dell’Italia all’estero; “pizza, pasta e mandolino” sono le prime tre parole a cui un turista penserà.
E la domanda sorge spontanea…
La domanda che potrebbe quindi sorgere spontanea è “Come mai fra tutte le attrazioni visitabili, il primo pensiero è il cibo?”. Secondo dati statistici recenti il 70% dei turisti viaggia in Italia per il cibo, mentre soltanto il restante 30% cita l’arte e la cultura come motivazione primaria. La maggiore influenza è data dalla qualità delle materie prime e dell’autenticità dell’esperienza culinaria italiana. Infatti se si pensa alle regioni, ognuna di queste è in grado di offrire un’ampia gamma di piatti particolari e sapori da esplorare. Di conseguenza, l’accessibilità e l’immediatezza dei prodotti alimentari favorisce il turismo enogastronomico. Quest’ultimo viene inoltre promosso dalla convivialità e dall’interazione, anche con persone locali, che mangiare presuppone. Se ci si prova a riflettere, anche nella nostra vita privata possiamo ritrovare questa emozione; quanto è rilassante sedersi a tavola dopo una lunga giornata e godere di una cena in famiglia? Quanta gioia trasmette il pranzo con tutti i parenti durante le festività? Cosa ci spinge ad organizzare una grigliata con i nostri amici il giorno di Pasquetta? È proprio la convivialità, la quale però può rappresentare un problema o un timore per chi decide di seguire una dieta.
I regimi alimentari
Mantenendo come fonte l’Enciclopedia Treccani, un regime alimentare è un insieme di norme e pratiche relative all’assunzione di cibo, spesso sinonimo di dieta. Questo termine non implica necessariamente restrizioni severe, ma piuttosto un’alimentazione ordinata e finalizzata a specifici obiettivi di salute. L’approccio corretto a un regime alimentare dovrebbe essere visto come uno stile di vita che mira a migliorare il benessere generale della persona, piuttosto che una serie di imposizioni rigide. Per cui, le persone decidono di seguire una dieta per vari motivi tra cui perdere peso, migliorare la salute, gestire condizioni mediche (come il diabete per esempio) o aumentare le proprie prestazioni atletiche. Di conseguenza, i benefici che questi ultimi possono portare sono i seguenti: perdere peso, migliorare la salute cardiovascolare, avere più forza ed energia.
L’estremo delle diete
Tuttavia, data l’ostentazione di corpi eccessivamente magri sui social media, l’incompetenza di alcuni specialisti o semplicemente un’ ossessione da parte del soggetto nei confronti dell’ alimentazione, le diete possono raggiungere un livello estremo, a causa del quale si riscontrano carenze nutrizionali, perdita di massa muscolare, problemi metabolici e problemi a livello psicologico.
I disturbi del comportamento alimentare
Partendo quindi dal presupposto che i regimi alimentari andrebbero seguiti a fini benefici per il nostro corpo e la nostra mente, come è possibile che essi sfocino in veri e propri disturbi del regime alimentare? Le specie di patologie che è possibile sviluppare sono varie, tra le più famose si vedono l’anoressia e la bulimia, ma non è sempre detto che siano legate esclusivamente a problemi di alimentazione. Spesso l’eliminazione del cibo, o al contrario la necessità di abbuffarsi, sono la conseguenza di instabilità a livello mentale. Un esempio può essere la mancanza di affettività nelle relazioni dell’individuo, un riscontro di eccessivo stress, una mancanza di soddisfazione nella vita lavorativa…Tutte situazioni per le quali l’individuo non è più in grado di gestire le proprie emozioni e sfoga la propria frustrazione sul cibo.
Il ruolo del linguaggio nella cura dei disturbi alimentari
Data l’analisi precedente sul linguaggio relativo al cibo nella cultura italiana, è opportuna una riflessione su come il linguaggio influisca anche sulla nascita di determinati disturbi. Spesso quando si incontra una ragazza molto magra, specialmente in età adolescenziale, è solito scherzare sulla sua condizione fisica, chiederle la classica domanda “Scusa, ma mangi?” o invitarla a consumare un piatto di pasta. In casi peggiori, le si attribuisce direttamente il disturbo senza conoscerla, quasi come se la si riconducesse solo a quella caratteristica specifica, minimizzando la sua vera identità. Dati i molteplici casi nei quali soggetti malati, e non, vengono maltrattati verbalmente, si è vista la nascita del progetto “Animenta”, che si pone come obiettivo quello di aiutare chi si trova in difficoltà attraverso la condivisione dei momenti del pranzo e della cena durante i quali si ha la possibilità di raccontare la propria storia, essere ascoltati e ricevere parole d’amore e conforto.
Migliorare il nostro rapporto con il cibo
In conclusione, il testo si pone come obiettivo quello di migliorare la nostra visione nei confronti dell’alimentazione, in quanto avente un visibile impatto sia per il correttofunzionamento del nostro organismo, sia per l’importanza che quest’ultima assume nella nostra sfera sociale.
di Matilde Rosati, Leonardo Cambioni, Irene Maione e Giulia Bertini
Gli inviti
Proseguiamo l’approfondimento delle tradizioni cinesi dopo le prime presentante in questo articolo. Gli inviti a cena per i cinesi sono molto importanti e comprendono varie regole da tenere a mente. Dato che i cinesi cenano presto, alle 17:30/18, è opportuno presentarsi almeno un’ ora e mezza prima e portare sempre dei regali, tipici del posto da cui veniamo se siamo arrivati in Cina da poco ma anche se in Cina già da un po’. È opportuno portare oggetti felici, ed evitare determinati regali come orologi, che rappresentano l’avvicinarsi della morte per i cinesi, oggetti taglienti, simbolo di taglio dei rapporti, cappelli verdi, i quali indicano che uno dei coniugi tradisce l’altro o un regalo in 4 pezzi, numero di morte per loro. Inoltre, è opportuno ricordare di impacchettare con carta rossa, rosa od oro, rispettivamente colori della fortuna, prosperità e abbondanza e non con carta nera, bianca o grigia, colori di lutto.
Le buone maniere da dover seguire
Quando si arriva, verremo fatti accomodare in salotto e ci verrà offerto del tè o, più raramente, del caffè o delle bibite. Il tè andrà bevuto tenendo il piattino sotto a mezz’aria o, in assenza, tenendo la tazza con una mano sotto. È bene fare complimenti sulla casa ma senza esagerare, sennò la proprietaria si sentirà obbligata a offrirci del tè e rifiutarlo sarebbe maleducato. Mai chiedere di aiutare la proprietaria, la quale potrebbe sentirsi non all’altezza di quello che sta facendo, ma piuttosto chiedere se si può dare una mano a fare qualcosa e il proprietario risponderà di non preoccuparsi e pensare a “divertirsi”, invitandoci a guardare un film con loro o a fare del karaoke, molto diffuso in Cina.
E a tavola…
Quando ci sediamo a tavola, è bene tenere entrambe le mani e braccia appoggiate sul tavolo. Quando verremo serviti, ci verrà detto di non aspettare e mangiare finché è caldo; meglio mangiare un po’ di tutto tra le cose che ci verranno servite nel piatto e poi dire che si è sazi, (吃饱了 chi bao le), piuttosto che non mangiare qualcosa, che farà pensare alla proprietaria che la sua cucina non è buona. Allo stesso modo, è bene non lasciare il piatto vuoto, indicando che si ha ancora fame e che quindi la cena non era abbastanza. Quando si mangia, è bene portarsi la ciotola alla bocca per evitare di piegarsi sul piatto. È importante ripetere varie volte che i piatti sono veramente deliziosi (很好吃 hen hao chi), anche se non si pensa realmente. Infine, è bene non attardarsi in chiacchere e alleviare i padroni di casa andandosene dopo il pasto, dopo aver ringraziato svariate volte.
Il brindisi
Non diversa la situazione al ristorante, dove inizierà a servirsi la persona che ha invitato per poi servire gli altri. È importante aprire le bacchette dopo che l’invitante, o il più anziano, l’ha fatto per primo ed è ben visto mangiare tutto quello che ci è stato servito nel piatto, senza rifiutare niente. È abituale per i cinesi fare molti brindisi ( 干杯 ganbei) e, a differenza nostra, shottare la bevanda; attenzione però, dato che noi, a differenza dei cinesi, non siamo abituati a bere più volte alcolici tutti d’un sorso, potremmo ubriacarci molto più facilmente, quindi è bene mettere un dito sul bicchiere per indicare che non si vuole più bere e in generale conoscere i propri limiti! Nelle occasioni più formali, i brindisi si fanno alzandosi in piedi ed è importante che i più giovani tengano i bicchieri più in basso rispetto a quelli dei più anziani. A fine pasto, come a casa, è meglio non perdersi in chiacchiere e lasciare prontamente il locale.
Le bacchette
In generale, è bene non giocare con le bacchette, batterle sul piatto attira spiriti maligni, metterle ai lati opposti del piatto è di cattivo augurio, infilarle verticalmente nella ciotola di riso è presagio di morte perché ricordano i bastoncini d’incenso nei funerali. Gli spaghetti sono simbolo di lunga vita, di conseguenza tagliarli porta male.
I regali
Trovare il regalo più adatto è sempre difficile, ma se ci si trova in Cina, lo è ancora di più! Infatti ci sono alcuni oggetti, che per valenza simbolica o per evocazione (perché ricordano la pronuncia di altre parole), sono molto apprezzati o al contrario, vengono visti offensivi. Uno dei tanti regali da non fare sono le scarpe, perché in cinese corrisponde alla parola 鞋 xié, come il carattere 邪 xié, che significa “malvagio”, “demoniaco”. Inoltre regalare le scarpe di una taglia più piccola significherà “dare a qualcuno delle scarpe strette da indossare” che equivale al modo di dire cinese “mettere scarpe strette” 穿小鞋 chuāxiǎoxié, usata per esprimere il concetto di “rendere la vita difficile a qualcuno”.
Il modo di ricevere i regali
Per quanto riguarda i capelli, sono un dono accettato molto volentieri, tuttavia bisognerà stare attenti al colore, ovvero al verde! Infatti l’espressione “indossare un cappello verde” 戴绿帽子dài lǜmàozi, equivale a dire portare le corna e quindi questo regalo potrebbe essere frainteso e considerato come insulto. Per non sbagliare, una buona scelta è quella di regalare libri o dolciumi ai bambini, fiori per le signore, vino e liquori per gli uomini. Lo sapevate che esiste anche un modo in cui ricevere i regali? Quando si dà o si riceve un regalo, non bisogna mai accettarlo con una mano, ma con tutte e due. Inoltre, non stupitevi se il vostro regalo, inizialmente verrà rifiutato; si tratta solo del galateo cinese! Infatti, non vuol dire che non è stato apprezzato, ma lo scopo di questa usanza è quello di non apparire avidi agli occhi degli altri. Ed è buona norma non scartare subito i regali, perché significherebbe concentrare l’attenzione sull’oggetto anziché sul gesto e sul suo donatore.
Il tè
La Cina è il maggior produttore del tè al mondo. Questo prodotto è diventato uno dei simbolo della cultura e della cucina cinese, utilizzato anche nella medicina tradizionale ed è noto per le sue varietà teraupeutiche, rilassanti e dissetanti.
Nella cultura cinese, il tè è sinonimo di accoglienza e amicizia. In passato offrire il tè simboleggiava portare rispetto a una persona di rango superiore o più anziana.Offrire una tazza di tè, è anche un modo per chiedere scusa, gesto particolarmente utilizzato dai bambini per farsi perdonare dai genitori.
La cerimonia del tè
La cerimonia del tè si è sviluppata nelle province del Fujian e del Guangdong, ma presto si è diffusa in tutta la Cina. E’ un rito antichissimo, ma ancora oggi praticato, soprattutto con valenza spirituale, legate alla meditazione e all’introspezione. La cerimonia segue una prassi ben precisa: le tazzine vengono disposte sul vassoio e si versa l’acqua in una ciotola che funge da teiera, che verrà poi utilizzata per sciacquare e riscaldare le tazzine. Grazie all’aiuto degli strumenti di bambù, vengono svuotate subito sul vassoio a doppio fondo e, successivamente, si prende la quantità di foglie di tè necessaria con un cucchiaino, si versa nella teiera e si aggiunge l’acqua.
L’infusione
Il tempo di infusione è contato in quattro o cinque profondi respiri, dopo di che questo primo infuso viene versato nelle tazzine con un unico movimento e nuovamente gettato. Lo scopo di questo passaggio è quello di risciacquare il tè. A questo punto si versa nuovamente l’acqua calda nella teiera e si attende un tempo di infusione maggiore, che varia a seconda del tipo del tè. Terminato il tempo di infusione, si versa nelle tazzine e si offre agli ospiti.
I negozi e le case da tè
Esistono due tipologie di negozi da tè: quelli turistici e quelli autentici. Nei primi le confezioni sono sgargianti e di tutti i formati, con traduzioni in varie lingue e una vasta offerta di tazze e teiere. Nei negozi di tè autentici, invece, ci si reca per acquistare una specifica varietà di tè già conosciuta e tazze e teiere più tradizionali.
Le case da tè sono locali dove ci si può recare per sorseggiare del tè accompagnato da snack dolci e salati, sono come una sorta di bar o pub dove si serve solo tè. Nell’antichità, era luogo di incontro delle persone più influenti nelle città, e spesso vi si stabilivano patti e accordi. A partire dalla dinastia Qing le case da tè sono state rese pubbliche e vi si tenevano spettacoli di artisti, ballerini e musicisti. In molte ritroviamo questi spettacoli ancora oggi.
I saluti
Prima di tutto, è importante sapere come ci si rivolge ad una persona. Il cognome precede sempre il nome, che difficilmente viene usato per rivolgersi ad una persona: si deve sempre chiedere il permesso di utilizzare il nome, che generalmente non viene rifiutato, ma è consigliato conoscere bene la persona per farlo, o che essa ve lo proponga di primo acchito. Perciò, quando ci rivolgiamo a qualcuno che non sia un nostro amico, dobbiamo dire prima il suo cognome, seguito poi dal titolo della persona o da un contrassegni di rispetto.
Un esempio
Prendiamo come esempio il cognome Ling: se ci riferiamo ad una persona più matura di noi, diremo lao Ling (老 lao significa anziano), per sottolineare il rispetto nei confronti dei più anziani; ugualmente, xiao Ling (小 xiao vuol dire piccolo o giovane) per rivolgersi ai più giovani; se invece ci rivolgiamo ad una giovane donna, diremo xiaojie (signorina) o nei ristoranti semplicemente xiaojie per chiamare la cameriera; signora è taitai, sempre dopo il nome mentre signore è xiansheng. Per riferirsi a coloro che praticano una professione, come per esempio il professore, usiamo il cognome e poi il titolo, e non “signore”: Ling laoshi.
I saluti ufficiali
È bene salutare per prima la persona più anziana in segno di rispetto e successivamente rivolgersi agli adulti. Per salutare persone della stessa età, si può prendere l’iniziativa di presentarci, sempre rispettando delle regole: si stringe la mano a lungo, chinando un po’ il capo. Contrariamente a quanto il mondo occidentale ritiene, l’inchino è ormai una forma antica di saluto cinese caduta del tutto in disuso. Oggi, nel Continente di Mezzo, l’inchino è stato sostituito da un semplice cenno del capo o da una stretta di mano.
Rompere il ghiaccio
Un buon sistema per “rompere il ghiaccio” potrebbe essere se la persona cinese vi offre del tè, solitamente senza neanche chiederlo, oppure, poiché i cinesi fumano molto, potrebbero anche offrire una sigaretta prima di accendersene una. Se fumate, non dimenticate di fare altrettanto! Proponete una sigaretta prima di accendere la vostra. Nel caso in cui la proponete ad una giovane donna, lei la rifiuterà sistematicamente, poiché è decisamente disdicevole per una giovane fumare durante una riunione. È bene specificare che i cinesi non sono contrari al fatto che un’Occidentale fumi, anzi! Se sanno che una donna occidentale fuma, molti cinesi le proporranno una sigaretta e si alzeranno tutti insieme per concedergliela. Ma proprio perché fumano molto, offriranno una sigaretta ogni dieci minuti, e poiché non è cortese rifiutare, è meglio evitare di fumare sin da subito!
Come evitare le gaffe al primo incontro
La prima cosa da sapere è di evitare baci e abbracci, anche tra amici, perché ciò li metterà in imbarazzo. La cosa migliore da fare, che siano conoscenti o amici, sarebbe di non toccarli e abbassare la testa dicendo buongiorno. Addirittura, per le persone importanti, si dovrebbe stringere la mano a lungo e ricoprire la mano con l’altra, secondo il grado della persona che ci troviamo di fronte: non è una semplice stretta di mano all’occidentale, e si potrebbe dire che è il miglior modo di salutare. Un tocco in più è chinate leggermente la testa, dimostrando così il proprio rispetto per la persona che si ha di fronte.
La conversazione
Non è importante solo riuscire a presentarsi in maniera corretta, ma bisogna anche non essere inferiori nella conversazione. Solitamente i cinesi vi porranno una quantità enorme di domande, per sapere con chi hanno a che fare o semplicemente per curiosità.
Le domande
Non esistete a fare domande sulla Cina, stando attenti però a non toccare i soggetti tabù, quali il Tibet, Taiwan, i diritti umani, la setta Falungong e i fatti di Tianan’men. In caso contrario, tenetevi pronti a reazioni piuttosto vivaci o decisamente a nessuna risposta e diventerà allora piuttosto difficile riprendere il dialogo. Inoltre, quando siete in Cina, evitate di criticare apertamente il vostro Paese, perché i cinesi hanno una bella impressione dei paesi occidentali. Altra cosa fondamentale è quella di non denigrare la Cina: più si parla della sua cultura e della sua bellezza, e più i cinesi saranno contenti.
di Matilde Rosati, Leonardo Cambioni, Irene Maione e Giulia Bertini.
Come tutti sappiamo il mondo Occidentale e quello Orientale, non si discostano solo geograficamente, ma anche culturalmente. Sotto questo punto di vista, la Cina è uno dei paesi più interessanti ed ha una delle culture più antiche al mondo, influenzata da molte correnti come la religione buddista, il confucianesimo e il taoismo, ed è proprio per questo che le usanze e le abitudini sono così differenti dalle nostre. In questo articolo andremo ad illustrare alcune delle sue tradizioni più particolari.
Il Capodanno cinese
Il Capodanno cinese (春节 Chun Jie) è una delle più importanti e maggiormente sentite festività tradizionali locali e celebra l’inizio del nuovo anno secondo il calendario cinese, il quale è diverso dal calendario gregoriano. Diversamente dalle popolazioni occidentali, in Cina il Capodanno non si festeggia il 1º gennaio. Infatti, la data cambia ogni anno e corrisponde al secondo novilunio dopo il solstizio d’inverno (21-23 dicembre), per questo può cadere in un lasso di tempo che va dal 21 gennaio al 20 febbraio. I festeggiamenti durano 16 giorni ed hanno inizio alla vigilia di Capodanno per terminare in corrispondenza della Festa delle Lanterne (元宵节 Yuanxiao Jie). Seguendo l’astrologia cinese, ogni anno è contrassegnato da un segno animale e da un ramo terrestre, che vanno a costituire un ciclo di 12 elementi; il capodanno cinese determina il passaggio da uno all’altro di questi elementi. Se si vuole calcolare l’appartenenza di una persona a un segno dell’oroscopo cinese si deve tenere conto del rispettivo anno di nascita gregoriano.
Svolgimento delle festività
Come già detto in precedenza, la festa vera e propria inizia la sera della vigilia e termina la sera del quindicesimo giorno con la Festa delle Lanterne. Durante queste due settimane, si tende a stare in famiglia, con visite ai parenti e ad amici più prossimi. Inoltre, si cerca di vestire il più possibile in rosso il quale è il colore propiziatorio e tradizionale, e adornare le case e le strade con oggetti caratteristici.
Ogni giorno è dedicato a svolgere attività differenti:
Nei giorni che precedono l’arrivo del nuovo anno ci si dedica alla pulizia radicale della casa. Questo gesto ha il significato simbolico di spazzare via la sfortuna e gli accidenti dell’anno passato e preparare la casa per l’arrivo della fortuna nel prossimo. Inoltre, è pratica comune addobbare la casa con nastri e ninnoli, di colore rosso. Nella sera della vigilia, in ogni famiglia si consuma un banchetto, nel quale è sempre presente il pesce, involtini e ravioli di vario tipo. Il primo giorno del nuovo anno è dedicato all’accoglienza delle divinità benigne del Cielo e della Terra e alla visita di parenti e amici stretti. Molto tipica è la sfilata allegorica, chiamata la danza del leone, con il manichino rappresentante del leone portato nelle strade cittadine. Inoltre, durante la sera sono tradizionali gli spettacoli con fuochi artificiali ed esplosivi rumorosi. Il secondo giorno, le donne sposate fanno visita ai propri genitori; questo è un evento lieto dal momento che nella Cina tradizionale, le donne dopo il matrimonio incontrano i genitori di rado. É tradizionale il culto dei defunti, onorati con preghiere e con l’accensione di incensi e candele.
E poi…
Il terzo e il quarto giorno vengono trascorsi nella propria casa, senza visite. Questo per scaramanzia, dal momento che è credenza comune che i litigi siano più facili in questi giorni e perché sono giorni dedicati ai defunti, in particolare per coloro che hanno perso un familiare nei 9 anni passati. Il quinto giorno è considerato la nascita del Dio cinese della ricchezza, infatti solitamente gli uffici e gli esercizi commerciali riaprono in questo giorno. Il settimo giorno si celebra la ricorrenza della creazione dell’uomo. É considerato un compleanno comune, in cui ogni persona diventa più vecchia di un anno. Il nono giorno è dedicato al culto dell’imperatore di Giada, re del Cielo nel canone taoista, a cui vengono offerte preghiere. Il quindicesimo giorno è la Festa delle Lanterne, durante la quale le famiglie escono nelle vie cittadine con delle lanterne accese e colorate. Fuori dalle case si accendono candele per guidare gli spiriti beneauguranti alle abitazioni.
Tradizioni
Durante il capodanno cinese sono presenti molte pratiche tradizionali a cui i cinesi sono molto affezionati.
Fuochi d’artificio
In Cina, i fuochi d’artificio sono un tradizionale festeggiamento fin dai tempi antichi. Essi sono considerati un modo per scacciare gli spiriti maligni, intimoriti dalla luce e dalla confusione. La potenziale pericolosità di questa pratica, tuttavia, e il loro uso indiscriminato nel periodo delle festività, hanno portato, a severe legislazioni volte a limitare o impedire del tutto il fenomeno. In molte grandi città della Cina, come Pechino, le amministrazioni organizzano spesso dei grandi spettacoli di fuochi nelle piazze, per dissuadere i singoli dall’uso isolato di esplosivi. Nei centri rurali della Cina, comunque, il lancio di razzi e petardi continua indiscriminato e per lo più incontrollato a ogni Capodanno.
Buste rosse
Lo scambio di buste rosse contenenti piccoli doni è tipico delle festività per il nuovo anno. Queste buste contengono solo denaro, solitamente in forma di monete, il cui complessivo può andare da pochi yuan a centinaia. Per tradizione, il numero del denaro contenuto nelle buste deve essere sempre di numero pari, in quanto i numeri dispari sono associati con il denaro che si dona ai funerali. Le buste rosse vengono donate dalle coppie sposate ai familiari o agli amici più stretti e giovani, ma è anche una pratica comune degli adulti per donarli ai bambini.
Danza del leone
La Danza del leone è una tradizione che consiste in una parata per le vie delle città e dei villaggi, nei quali marcia un manichino che rappresenta un leone che danza a ritmo di tamburi e cimbali.È simile alla Danza del drago, una simile tradizione praticata in diverse occasioni durante vari periodi dell’anno, ma ha un significato diverso: mentre la Danza del drago celebra e invoca i benigni draghi cinesi, la Danza del leone scaccia ed esorcizza i cattivi spiriti e favorisce l’arrivo della fortuna del nuovo anno.
Addobbi e decorazioni
Il colore rosso è considerato di buon auspicio per l’anno nuovo, ed è perciò abitudine comune decorare le case con fiocchi e nastri di questo colore durante il Capodanno. Altri addobbi tipici esposti in casa e sulla facciata posteriore delle porte includono motti beneauguranti, dipinti su carta e tela secondo le arti calligrafiche, piccoli quadri o nodi tradizionali di stoffa rossa. É molto comune decorare le case con i piccoli ninnoli, i più comuni sono il pesce Koiconsiderato auspicio di buona fortuna, i piccoli lingotti d’oro o d’argento portatori di prosperità e ricchezza, ed infine dei semplici ritagli di carta. Comune ad altri periodi festivi dell’anno, come la Festa di metà autunno, è l’accensione delle caratteristiche lanterne, dell’immancabile colore rosso, realizzate in carta di riso e appese fuori dalle porte. Infine è tipica l’esposizione di particolari fiori o componimenti floreali, in particolare il pruno asiatico che simboleggia la fortuna, il narciso, che simboleggia prosperità, crisantemo, che simboleggia la longevità, girasole, tipico di questo periodo e benaugurante per il nuovo anno, bambù e frutti di fortunella.
di Guya Aramini, Gaia Giovacchini, Giada Stefanini, Rachele Tulliani
Introduzione
Le accademie di lingua in Europa svolgono un ruolo cruciale nella conservazione, protezione e promozione delle rispettive lingue nazionali. Queste istituzioni, spesso con secoli di storia, lavorano per mantenere la purezza linguistica, adattare il linguaggio alle nuove realtà e garantire che le tradizioni linguistiche vengano trasmesse alle generazioni future. Questo articolo esplorerà il ruolo, la storia e l’importanza delle principali accademie di lingua europee.
L’Accademia della Crusca: faro della lingua italiana
Fondata nel 1583 a Firenze, l’Accademia della Crusca è una delle più antiche istituzioni linguistiche del mondo. Nata con l’obiettivo di preservare l’integrità e la purezza della lingua italiana e molto nota anche per il suo importante lavoro lessicografico, l’Accademia ha pubblicato il suo primo vocabolario della lingua italiana nel 1612. Ancora oggi, l’Accademia della Crusca è un punto di riferimento per studiosi e appassionati della lingua italiana, impegnata nell’aggiornamento del Vocabolario e nella promozione della lingua italiana nel mondo.
La Real Academia Española (RAE): Garanzia della Lingua Spagnola
La Real Academia Española (RAE) è stata fondata nel 1713 a Madrid, con lo scopo di stabilire e mantenere le regole della lingua spagnola al fine di garantirne la sua unità. Il suo motto, “Limpida, fija y da esplendor” (Pulisce, stabilizza e dà splendore), riassume l’essenza del suo lavoro. La RAE ha pubblicato il “Diccionario de la Lengua Española”, considerata una delle risorse linguistiche più complete per la lingua spagnola, e collabora strettamente con le accademie di lingua spagnola di tutto il mondo per mantenere l’unità e l’evoluzione armoniosa del castigliano.
L’Académie Française: Il Guardiano Del Francese
Fondata a Parigi nel 1635 dal cardinale Richelieu, l’Académie Française è l’istituzione preposta alla regolamentazione della lingua francese. Nota per la pubblicazione del “Dictionnaire de l’Académie française”, e composta da 40 membri, noti come “Les Immortels”, l’Académie ha il compito di redigere il Dizionario e di promuovere la purezza e l’uso corretto della lingua. Nonostante le critiche occasionali per un approccio considerato troppo conservatore, l’Académie rimane una figura centrale nel panorama culturale francese, intervenendo anche in questioni linguistiche di importanza nazionale e internazionale. Tuttora l’accademia ha un ruolo fondamentale per quanto riguarda la conservazione e l’evoluzione della lingua francese.
La Deutsche Akademie FüR Sprache Und Dichtung: Promozione Della Lingua E Letteratura Tedesca
Fondata nel 1964 a Mannheim, la Deutsche Akademie für Sprache und Dichtung è meno antica delle sue controparti italiane, spagnole e francesi, ma svolge un ruolo altrettanto importante. Questa accademia si dedica non solo allo studio della lingua, ma anche all’analisi della letteratura tedesca, premiando autori e studiosi che hanno contribuito in modo significativo alla cultura tedesca. La sua missione include anche la promozione del tedesco come lingua di cultura e scienza.
Le Accademie di Lingua come sentinelle linguistiche
In conclusione, le accademie di lingua europee rappresentano delle vere e proprie sentinelle linguistiche, impegnate nella conservazione delle rispettive lingue nazionali in un mondo sempre più globalizzato. Attraverso la pubblicazione di dizionari, la regolamentazione linguistica e la promozione culturale, queste istituzioni garantiscono che le lingue europee continuino a prosperare e a evolversi nel rispetto delle loro tradizioni storiche. In un’epoca in cui l’inglese domina come lingua franca, il lavoro di queste accademie è essenziale per preservare la diversità linguistica e culturale del nostro continente.
Cristo si è fermato ad Eboli è un romanzo di Carlo Levi, pittore e scrittore del Novecento che per la sua attività antifascista, fu confinato in Lucania dalle autorità dell’epoca, prima a Grassano e poi ad Aliano, paesino dell’entroterra lucano che egli nel libro chiamerà Gagliano, imitando la pronuncia del dialetto locale. Durante quel soggiorno Levi ebbe la possibilità di conoscere la realtà di quei luoghi, entrando profondamente in contatto con le condizioni di miseria vissute dai contadini. Levi rimase quasi folgorato da questa umanità remota tanto da iniziare una sorta di processo di conoscenza di sé stesso proprio a partire da ciò che conobbe in questo periodo della sua vita. È proprio ad Aliano, paese devastato dalla malaria e dalla povertà, che egli si rende conto che in questi luoghi la modernità sembra essere sconosciuta così come il messaggio cristiano. Viene a conoscenza anche del fatto che il sistema feudale medioevale, all’epoca superato di gran lunga nelle grandi città, è in realtà ancora radicato nella vita dei cittadini di questo piccolo borgo dove questi sono ancora divisi in contadini e proprietari terrieri, responsabili assoluti della povertà degli “ultimi”. Il confino ad Aliano sarà interrotto da un lutto familiare che costringerà l’autore a ritornare nella sua Torino e a rendersi conto di come l’esperienza di confino lo abbia profondamente cambiato. Sin da principio dalla parte dei contadini, una volta arrivato lì, Levi ha come scopo il raggiungimento di due obiettivi: denunciare le condizioni disumane di vita degli “ultimi” e descrivere questo mondo, questa civiltà arretrata ma ricca di storie, aneddoti, misteri che segneranno profondamente la vita dell’autore. Italo Calvino di lui scrive: «La peculiarità di Levi sta in questo: che egli è testimone della presenza d’un altro tempo all’interno del nostro tempo, è l’ambasciatore d’un altro mondo all’interno del nostro mondo. Possiamo definire questo mondo il mondo che vive fuori dalla storia di fronte al mondo che vive nella storia. […] È un uomo impegnato nella storia che viene a trovarsi nel cuore d’un Sud stregonesco, magico, e vede che quelle che erano per lui le ragioni in gioco qui non valgono più, sono in gioco altre ragioni, altre opposizioni nello stesso tempo più complesse e più elementari. […] In questo senso ho parlato di Carlo Levi come d’un ambasciatore del mondo “contadino” presso il nostro mondo urbano»[1].
1. Un poeta-pittore: Carlo Levi
Nel 1946, Fortunato Bellonzi scrive: «Levi non è un pittore che scrive ma uno scrittore che dipinge». La dichiarazione del critico suona come un pronostico su quello che sarà il vero successo dell’artista: la scrittura. Durante la permanenza prima a Grassano, e poi ad Aliano, a causa del confino, Levi dipinge quelle che saranno le sue opere più famose, circa settanta quadri che esprimevano le sue prime forme di interesse nei confronti della vita del mondo contadino.
2. La Lucania vista con gli occhi di Levi: tre dei suoi dipinti
La Santarcangelese L’opera risale al 1936 ed è conservata presso il Museo Nazionale di Matera. Nella protagonista è possibile riconoscere Giulia Venere, la governante di Levi spesso descritta in Cristo si è fermato ad Eboli, sia per le caratteristiche fisiche che per alcuni aspetti del carattere. Di lei l’autore scrive: «Era una donna alta e formosa con un vitino sottile come quello di un’anfora, il petto e i fianchi robusti, con gli occhi neri ed opachi, la bocca con le labbra sottili. (pp91).[1] Levi descrive anche i suoi modi di pensare e l’atteggiamento nei suoi confronti; infatti: «Se le chiedevo di posare non aveva mai tempo: capii che c’era qualche oscura ragione che la impediva… Capii allora che la sua ripugnanza aveva una ragione, ed essa stessa me lo confermò». Un ritratto sottrae qualcosa alla persona ritratta, l’immagine, e, proprio per questa sottrazione, il pittore acquista un potere assoluto su chi ha posato per lui. Dal dipinto emerge l’atteggiamento schivo della donna che tiene lo sguardo rivolto verso il basso, verso il figlio, tenuto in braccio come un Gesù Bambino tra le braccia di una Madonna lucana.
Lucania ’61
L’opera è interamente dedicata a Rocco Scotellaro, amico, scrittore, poeta e sindaco di Tricarico. Pallido in volto a causa della malaria, egli è ritratto al centro, circondato dalla sua gente; quella gente umile che non ha mai perso la speranza di poter ottenere una condizione di vita migliore. Nel dipinto si possono scorgere animali simbolici della vita contadina, come l’asino e le pecore. Significativa è inoltre l’attenzione riservata al paesaggio, caratterizzato dai tipici “calanchi” e dalle tristi abitazioni della povera gente comune.
La fossa del bersagliere
La fossa del bersagliere è uno dei dipinti in cui si nota maggiormente l’adesione di Levi alla pittura del paesaggio del vero: egli sceglie come soggetto il dirupo che vede dal terrazzo della propria abitazione, mettendone in risalto le caratteristiche principali, come la presenza del terreno argilloso riscontrabile nei colori utilizzati. Osservando l’opera, emerge chiaramente la volontà di dare dignità artistica ai caratteri semplici e umili della terra che lo ospita. Di questa Levi scrive: “La Fossa del Bersagliere è piena d’ombre, e l’ombra avvolge i monti viola e neri che stringono d’ognintorno l’orizzonte. Brillano le prime stelle, scintillano di là dall’Agri i lumi di Sant’Arcangelo, e più lontano, appena visibili, quelli di qualche altro paese ignoto, Noepoli forse, o Senise. La strada è stretta, sulle porte stanno seduti i contadini, nel buio che sale. Dalla casa del morto giungono i lamenti delle donne. Un brusio indistinto mi gira attorno in grandi cerchi, e di là c’è un profondo silenzio. Mi par d’essere caduto dal cielo, come una pietra in uno stagno”. (p. 18)”.
3. Il tema del lutto nel Meridione
Durante il suo esilio lucano, Levi rimase fin da subito stupito dalla presenza, sull’uscio della maggior parte delle abitazioni di Gagliano, di veli neri simboleggianti i numerosi lutti che colpivano le famiglie e che dovevano essere mantenuti finché non fossero il tempo, le intemperie, il sole e la pioggia a farli sbiadire e quindi ad annullarli. La morte costituisce l’evento che nessuna civiltà può superare. L’uomo stesso, dinanzi alla morte, è impotente e quindi sente il bisogno di non tenere per sé il proprio dolore, ma di condividerlo con i propri cari. In un contesto come quello dei piccoli paesi della Basilicata la condivisione del dolore finisce per coinvolgere l’intera ristretta comunità. L’autore, infatti, scrive: “Verso l’alba il malato di avviò alla fine. Le invocazioni e il respiro cambiarono in un rantolo, e anche quello si affievolì a poco a poco, con lo sforzo di una lotta esterna e cessò. Non aveva ancora finito di morire che già le donne gli abbassavano le palpebre sugli occhi sbarrati, e cominciavano il lamento. Quelle due farfalle bianche e nere, chiuse e gentili, si mutarono d’improvviso in due furie. Si strapparono i veli e i nastri, si scompigliarono le vesti, si graffiarono a sangue il viso con le unghie e cominciarono a danzare a grandi passi per la stanza battendo il capo nei muri e cantando, su una sola nota altissima, il racconto della morte […] Era impossibile ascoltarla senza essere invasi da un senso di angoscia fisica irresistibile: quel grido faceva venire un groppo alla gola, pareva entrasse nelle viscere” (p.199).
La crisi individuale diventa un pianto collettivo che si manifesta attraverso i riti e le regole del lamento funebre. Ernesto De Martino, antropologo, storico delle religioni e filosofo italiano, interpreta questo fenomeno nel libro Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria, dove si comprende che i tratti più significativi del rituale descritto da Levi rivelano che la morte non può essere un fenomeno neutro e impersonale. Muovendo da un punto di vista antropologico e non letterario, De Martino analizza il fenomeno confrontando i riti lucani con quelli calabresi e sardi fino a giungere in Romania, alle frontiere del Caucaso. La conclusione a cui giunge il celebre antropologo è che le origini di simili riti risalgono all’antico Egitto, alla Mesopotamia e al mondo dell’antica Grecia.
4. La figura della donna per Levi: le donne di Gagliano
I contadini sono caratterizzati da una morbosità e da un attaccamento nei confronti delle cose materiali che permane in tutte le fasi della loro vita. Tale attaccamento morboso si riflette nell’atteggiamento che i contadini maschi adottano nei confronti delle donne. In loro è presente un sentimento di maggiore rispetto nei confronti della figura materna che nei confronti della propria moglie. Considerata un’utile proprietà, la moglie non solo si caratterizza per una forza paragonabile a quella di un mulo dedito al lavoro nei campi, ma anche per la possibilità di generare altra forza-lavoro. Il rapporto d’intimità è limitato alla procreazione e né al figlio maschio né alla figlia femmina viene data la possibilità di scoprire la propria personalità. La donna, esclusa da qualsiasi evento esterno al focolare domestico, acquista un valore simbolico, la cui massima espressione è rappresentata dalla verginità in cui è racchiusa la dignità del suo essere donna e, in secondo luogo, della famiglia da cui proviene. Il forte senso di pudore che caratterizza le donne meridionali è legato al fatto che, spesso, queste donne sono state costrette o quasi a vivere in una sola stanza, senza poter godere di uno spazio libero, di una “stanza per sé” – per citare Virginia Woolf – e al tempo stesso sono riuscite a tenere insieme la famiglia e a costruire un’eredità fatta anche di riti e tradizioni per le generazioni future. Di questo Levi scrive: “L’amore, o l’attrattività sessuale, è considerata dai contadini come una forza della natura, potentissima, e tale che nessuna volontà è in grado di opporvisi. Se un uomo e una donna si trovano insieme al riparo e senza testimoni, nulla può impedire che essi si abbraccino: né propositi contrari, né castità, né alcun’altra difficoltà può vietarlo; e se per caso effettivamente essi non lo fanno, è tuttavia come se lo avessero fatto: trovarsi assieme è fare all’amore. L’onnipotenza di questo dio è tale, e così semplice è l’impulso naturale, che non può esistere una vera morale sessuale, e neanche una vera riprovazione sociale per gli amori illeciti. Moltissime sono le ragazze madri, ed esse non son affatto messe al bando o additate al disprezzo pubblico: tutt’al più troveranno qualche maggior difficoltà a sposarsi in paese, e dovranno accasarsi nei paesi circostanti, o accontentarsi di un marito un po’ zoppo o con qualche altro difetto corporale. Se però non può esistere un freno morale contro la libera violenza del desiderio, interviene il costume a rendere difficile l’occasione. Nessuna donna può frequentare un uomo se non in presenza d’altri, soprattutto se l’uomo non ha moglie: e il divieto è rigidissimo: infrangerlo equivale ad aver peccato. La regola riguarda tutte le donne, perché l’amore non conosce età (p. 87)”.
La magia: la fascinazione e altri rituali
Levi è affascinato dalla conoscenza, da parte di Giulia, dei rituali che appartengono al mondo magico. De Martino parla del rituale della fascinazione, in dialetto lucano fascinatura o affascino. Con questo termine si indica una condizione psichica di impedimento e inibizione e al tempo stesso un senso di dominazione. Con il termine ‘fascinazione’ si designa anche la forza ostile che circola nell’aria. I sintomi tipici di questo “incantesimo” sono caratterizzati da cefalgia, sonnolenza, spossatezza, ipocondria e rilassamento. La fascinazione comprende un agente e una vittima. Quando l’agente è un essere umano, si parla di ‘malocchio’, un’influenza malvagia che consiste nello sguardo invidioso di qualcuno e può avere un impatto più o meno involontario[1]. Il rito della fascinazione si fonda su un cerimoniale eseguito da veri e propri operatori della magia, solitamente le donne anziane, depositarie del rituale. L’anziana signora inizia il rito facendosi il segno della croce, poi comincia a recitare la formula sottovoce facendo continuamente il segno della croce sulla fronte di chi dev’essere liberato da quel malessere. La formula si ripete dalle tre alle nove volte. Al termine di ogni strofa si recita un Pater, Ave e Gloria, tutto sottovoce. A seconda del momento in cui cade lo sbadiglio della fascinatrice – se durante il Padre nostro o nelle altre preghiere – si deduce il genere dell’autore o dell’autrice della fascinazione, e cioè di colui o colei che ha provocato la fascinazione. Se lo sbadiglio non arriva, se ne deduce che il mal di testa non è frutto di fascinazione. Alcune fascinatrici, per non prendere il mal di testa su di sé, utilizzavano delle forbici o un coltello per segnare la fronte della vittima e, alla fine di ogni strofa, gettavano lo strumento a terra. A volte, a fine rituale, si metteva dell’acqua in un catino e l’affascinato doveva prenderla con una mano e portarsela per nove volte sulla fronte; successivamente doveva buttarla ad un incrocio di strade. Il primo o la prima che fosse passata di là avrebbe preso su di sé la fascinazione. La formula non poteva essere divulgata; le donne anziane, qualche volta, tramandavano questo rituale a una loro prescelta ma potevano farlo solo in occasione della domenica, del Natale e della Santa Pasqua. Levi scrive di Giulia dicendo: “Nella cucina più misteriosa dei filtri, Giulia era maestra: le ragazze ricorrevano a lei per consiglio per preparare i loro intrugli amorosi. Conosceva le erbe e il potere degli oggetti magici. Sapeva curare le malattie con gli incantesimi, e perfino poteva far morire chi volesse, con la sola virtù di terribili formule (p.93)”. Appena arrivato a Gagliano, Levi viene avvertito dal podestà di non accettare bevande e cibi dai contadini poiché questi potevano metterci dentro un filtro ma l’autore non segue questo consiglio: “[…] ho affrontato ogni giorno il vino e il caffè dei contadini, anche se chi me lo preparava era una donna. Se c’erano dei filtri, forse si sono vicendevolmente neutralizzati. Certo non mi hanno fatto male; forse mi hanno, in qualche modo misterioso, aiutato a penetrare in quel mondo chiuso, velato di veli neri, sanguigno e terrestre, nell’altro mondo dei contadini, dove non si entra senza una chiave di magia (p. 14)”. Una delle peculiarità di Carlo Levi risiede nel fatto che egli non si è mai rifiutato di ascoltare e di far proprie le credenze dei contadini lucani: «Alcuni assumono questa mescolanza di umano e di bestiale soltanto in determinate occasioni. I sonnambuli diventano lupi, licantropi, dove non si distingue più l’uomo dalla bestia»2 (pp.99). Nonostante esercitasse la professione del medico, Levi non ha mai vantato una presunta superiorità borghese. Si è sempre anzi preoccupato che la cultura contadina venisse preservata e ha mostrato un sincero e umano interesse verso le persone più umili. L’autore ripone particolare attenzione anche nei confronti dei riti sacri che i contadini riescono comunque a trasformare in una sorta di riti pagani. Egli infatti scrive: “Nel mondo dei contadini non c’è posto per la ragione, per la religione e per la storia. Non c’è posto per la religione, appunto perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto è magia naturale. Anche le cerimonie delle chiese diventano dei riti pagani, celebratori dell’indifferenziata esistenza delle cose, degli infiniti terrestri dei del villaggio (p. 102)”. I contadini ripongono totale fiducia nella Madonna Nera di Viggiano, tuttora elemento cardine delle tradizioni sacre lucane festeggiata due volte l’anno: la prima domenica di maggio, quando dalla Basilica sita in Viggiano, il simulacro della Vergine si muove in una lunghissima processione a piedi verso il Sacro Monte dove, nel santuario a Lei dedicato, vi resterà per tutta l’estate e la prima domenica di settembre quando dal Monte ritorna in paese. È un pellegrinaggio che coinvolge circa 50000 fedeli che ogni anno si recano in questa cittadina per onorarla. È una tradizione che va avanti da secoli tanto da essere stata insignita da Papa Giovanni Paolo II del titolo di Regina delle Genti lucane. Leggendo il romanzo, si evince che questa festa rappresentasse anche all’epoca una parte dei riti sacri del tempo tanto che i contadini di Gagliano ne avessero riprodotto una copia modesta e la festeggiassero anche nel loro paese. Egli infatti scrive: “Eravamo alla metà di settembre, la domenica della Madonna. Fin dal mattino le strade erano piene di contadini vestiti di nero, c’erano dei forestieri, i musicanti di Stigliano e gli artificieri di Sant’Arcangelo, venuti a disporre le bombe e i mortaretti. […] Il pomeriggio, dopo le ore del caldo, cominciò la processione. Uscì dalla chiesa e percorse tutto il paese. […] Su un baldacchino retto da due lunghe stanghe, portato a turno da una dozzina di uomini, veniva la Madonna. Era una povera Madonna di cartapesta dipinta, una copia modesta della celebre e potentissima Madonna di Viggiano e aveva, come quella, il viso nero: era tutta coperta di abiti di gala, di collane e di braccialetti. […] Non si vedeva, negli occhi delle persone, felicità o estasi religiosa, ma una specie di follia, una pagana smoderatezza, e come uno stordimento a cui si lasciavano andare. Tutti erano eccitati. […] Sugli usci di tutte le case i contadini aspettavano la processione con in mano un cesto di grano, e al suo passaggio ne buttavano piene manciate sulla Madonna, perché si ricordasse dei raccolti e portasse la buona fortuna. […]La Madonna dal viso nero, tra il grano e gli animali, gli spari e le trombe, non era la pietosa Madre di Dio, ma una divinità sotterranea, nera delle ombre del grembo della terra, una Persefone contadina, una dea infernale delle messi”(pp. 102-104). In ogni abitazione dei contadini vi è un’immagine della Madonna Nera che, con il suo sguardo, assiste e protegge i suoi fedeli. Infatti egli dice: “La Madonna nera non è, per i contadini, né buona né cattiva: è molto di più. Essa secca i raccolti e lascia morire, ma anche nutre e protegge: e bisogna adorarla. In tutte le case, a capo del letto, attaccata al muro con quattro chiodi, la Madonna di Viggiano assiste, con i suoi grandi occhi senza sguardo nel viso nero, a tutti gli atti della vita (p.106)”.
Il mimetismo linguistico di Levi
Levi si ritrova catapultato in una realtà in cui la gente non conosce l’italiano e la percentuale di analfabeti è pari al 90% della popolazione. Nel saggio “L’Italia linguistica dall’Unità all’età della Repubblica”, Tullio De Mauro afferma che in quel periodo le stime fanno ascendere al 2,5% la popolazione in grado di usare attivamente l’italiano e al 6 o 7% (secondo Giacomo Devoto) o quasi al 10% (secondo Arrigo Castellani) la popolazione in grado di capirlo.6 E la stima non sorprende: al primo censimento dell’Italia unita il 78% della popolazione risultò totalmente analfabeta, in quegli anni l’istruzione elementare, dove c’era, garantiva soltanto una sommaria alfabetizzazione e l’istruzione postelementare, che poteva portare all’uso della lingua italiana, era riservata allo 0,9% delle fasce giovani. Le potenzialità d’uso della lingua nazionale erano state e restavano consegnate alle sorti della scuola. In realtà in quegli anni la scuola, anche a causa di politiche a svantaggio di essa, non riuscì a fare molto e, per questo, il tasso dell’analfabetismo rimase comunque alto. Tutto ciò è evidente anche in Cristo si è fermato ad Eboli dove l’autore si rende sin da subito conto delle condizioni di arretratezza scolastica e culturale sia degli adulti ma in particolare dei bambini, i quali frequentano pressocché poco la scuola del tempo. Quindi egli impara a conoscere il loro dialetto, anche se in Cristo si è fermato a Eboli non se ne trovano tracce consistenti. Quando impiegate, le espressioni dialettali vengono spiegate subito dopo o quasi. Ad esempio: «Addo vades?», che significa: «Dove vai?»; e «Nint», cioè: «Niente». Infatti scrive Levi: “Io pensavo a quante volte, ogni giorno, sentivo usare questa continua parola, in tutti i discorsi dei contadini – Nint – come dicono a Gagliano. Che cosa hai mangiato? – Niente Che cosa speri? – Niente […] (p.163)”. Un’altra parola che colpisce il lettore è ‘”cristiano”’. Levi, riprendendo le parole dei contadini scrive: “Noi non siamo cristiani, – essi dicono – Cristo si è fermato ad Eboli. Cristiano vuol dire nel loro linguaggio uomo. […] Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma. […] (p. 1)”. Da questa citazione emerge il fatto che i contadini subiscono le scelte politiche di chi si trova al di là dell’orizzonte ed è completamente disinteressato ai problemi di queste terre. Cristo qui sembra non essere arrivato davvero: sono terre vergini, non conquistate da nessuno, dove il ritmo lento della vita contadina caratterizza l’andamento delle stagioni dell’anno.
[1] Ernesto De Martino, Sud e magia, Milano, Feltrinelli, 2002.
[1] Le citazioni da Cristo si è fermato a Eboli sono tratte dall’edizione Einaudi del 1990.
[1] Da «Galliera», 3-6 (1967), pp. 237-40, a cura di A. Marcovecchio, numero monografico dedicato a Carlo Levi.
La democrazia è una forma di governo che trova i suoi natali nell’Atene del V secolo A.c. e che prevede il controllo del potere politico da parte del popolo per mezzo di libere elezioni.
La democrazia rappresenta, soprattutto in Occidente, una forma di governo perfetta al punto da poter generare la pace perpetua teorizzata da Kant. Secondo il filosofo di Königsberg le repubbliche risultavano più stabili rispetto ai regimi autoritari (Kant, 1795). La Teoria è stata rivisitata da Doyle nel 1983 che, adattandola al contesto storico, ha affermato che un mondo costituito da sole democrazie sarebbe un mondo idealmente stabile e pacifico.
Tuttavia, ad oggi, solo 64 Paesi su 193 sono democratici e solo l’8% della popolazione globale vive all’interno di una democrazia completa.
Dalla teoria della pace kantiana discende quindi il proposito moderno degli Stati occidentali di esportare la democrazia, anche per mezzo della guerra, per promuovere la pace, la prosperità economica, la sicurezza ed i diritti umani. L’esportazione forzata della democrazia, tuttavia, crea un paradosso che mina i principi stessi di essa e dei paesi che se ne considerano paladini ovvero l’accettazione della diversità, la libertà e l’autodeterminazione dei popoli.
Cos’è la democrazia
La democrazia ha subito una forte evoluzione nel corso del tempo. Se nell’antica Grecia vigeva la partecipazione diretta dei cittadini al potere politico, oggi la democrazia si basa sull’elezione di rappresentanti dei cittadini e il volere del popolo è limitato dalla legge al fine di garantire il rispetto dei diritti fondamentali. Nonostante non ci sia una definizione universalmente riconosciuta del termine democrazia, per consensus uno Stato può essere definito democratico se al suo interno sono garantiti il suffragio universale, le elezioni libere, corrette e ricorrenti, la pluralità dei partiti, la competitività e la libertà di stampa (Cotta, 2001).
È, tuttavia, impossibile vedere la democrazia solo come una forma di governo senza considerare l’immediata associazione tra questa e le grandi conquiste sociali. Tra queste figurano la libertà di parola, l’uguaglianza formale tra le persone e lo sviluppo economico.
Metodi di esportazione del modello democratico
Esistono diversi metodi per esportare la democrazia. Quello più comune è la guerra. La democratizzazione forzata, attraverso il cosiddetto “metodo del bastone”, prevede l’utilizzo di mezzi coercitivi che, inevitabilmente, non coinvolgono solo i leader autoritari, ma anche la popolazione civile e contribuiscono ad acuire la violenza e la frammentazione interna ai Paesi oggetto di esportazione (Basso, 2017).
La democratizzazione attraverso il “metodo della carota”, al contrario, prevede un processo volto a modificare progressivamente le istituzioni governative e a diffondere e consolidare le idee di uguaglianza e libertà tra la popolazione in modo pacifico (Archibugi, 2009). L’utilizzo di strumenti di soft powercome la persuasione, gli incentivi e la collaborazione internazionale non creano problemi etici di cui le democrazie esportatrici si devono fare carico e contribuiscono a migliorare il livello democratico all’interno degli stessi Paesi esportatori. Inoltre, il “metodo della carota” permette di evitare il sorgere di incongruenze tra i mezzi e il fine. La democrazia e la pace possono essere raggiunte con maggiore facilità attraverso l’utilizzo di mezzi coerenti.
Esportazione della democrazia e diritto internazionale
L’esportazione forzata della democrazia senza tenere conto dell’autodeterminazione e della volontà dei popoli mina alcuni dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico internazionale (Sinagra, 2015). Vengono messi in discussione il principio di parità giuridica tra gli Stati e il principio di integrità territoriale. In questo modo la comunità internazionale non è più vista come orizzontale. Diviene anzi una comunità nella quale gli Stati più forti economicamente e politicamente assumono una posizione egemonica nei confronti degli altri (Quadri, 1949).
L’esportazione della democrazia attraverso l’uso della forza mette, inoltre, in discussione il principio di non aggressione sancito dall’articolo 2 paragrafo 4 della Carta delle Nazioni Unite. In tal caso parliamo del principio di non ingerenza negli affari interni. Quest’ultimo vieta tutti gli interventi volti a condizionare le decisioni politiche interne ed esterne degli altri Paesi.
Obiettivi all’apparenza nobili come l’esportazione della democrazia di stampo occidentale, dunque, vengono strumentalizzati al fine di giustificare “guerre democratiche”. Non soltanto: vanno a nascondere gli interessi economici degli Stati esportatori, i quali vengono accusati di non aver abbandonato del tutto le abitudini imperialiste (Zolo, 2010).
Il caso dell’Iraq
In Iraq nel 2003 è stata applicata per la prima volta in modo pratico la dottrina Bush della guerra preventiva. L’intervento armato unilaterale, voluto in modo particolare dagli Stati Uniti al fine di eliminare le presunte armi di distruzione di massa e di far cadere il regime di Saddam Hussein, non era stato autorizzato dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Risulta quindi illegale secondo il diritto internazionale. Il processo di democratizzazione del Paese a seguito della caduta di Saddam non è risultato semplice e veloce come previsto dall’Amministrazione americana. La democrazia è stata esportata con la forza, senza coinvolgere attivamente la popolazione, la quale ha percepito il regime democratico come una mera imposizione da parte di una potenza occupante.
L’Iraq post-Saddam, ancora annoverato tra i regimi autoritari dal Democracy Index dell’Economist Intelligence Unit, è caratterizzato da una profonda insicurezza economica, politica e fisica. La corruzione è estremamente diffusa e l’avvento della democrazia non è riuscito a migliorare in modo significativo le condizioni di vita dei cittadini iracheni. Al contrario, la democratizzazione forzata ha fatto sorgere un sentimento antioccidentale tra i cittadini iracheni. Il gruppo terroristico di Al-Qaida non è stato indebolito, come auspicato. Addirittura ha incrementato le sue opportunità di reclutamento all’interno del territorio (Fawcett, 2023). L’intervento statunitense in Iraq ha avuto un impatto destabilizzante per l’intero sistema internazionale. Questo non ha favorito gli interessi occidentali in quanto, oltre alla caduta del regime del Rais, ha fallito nell’intento di esportare la democrazia per pacificare il Medio Oriente e per estirpare il fenomeno del terrorismo (Acharya et. al, 2011). I controversi risultati prodotti dalla guerra in Iraq hanno esposto i limiti dell’esportazione forzata della democrazia. Non soltanto: hanno contribuito ad aumentare lo scetticismo nei confronti dell’ordine mondiale a guida americana e hanno causato danni reputazionali agli Stati Uniti, accusati di essere una potenza neo imperiale.
Conclusioni
L’esportazione della democrazia diventa così uno degli obiettivi cardine della politica estera americana dalla caduta del blocco sovietico al fine di consolidare la propria egemonia e di stabilizzare il nuovo ordine mondiale, con la convinzione che, come teorizzato nella teoria neokantiana, le democrazie siano pacifiche e non si dichiarino guerra a vicenda. L’esperienza storica dell’esportazione coercitiva della democrazia in Iraq ha messo in luce il fatto che la democrazia è difficilmente esportabile con la forza senza tenere conto della volontà del popolo. Tutto questo dimostra anche che l’ideale della democrazia e la difesa dei suoi valori vengono spesso strumentalizzati al fine di giustificare l’utilizzo unilaterale della forza, anche quando non consentito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Bartholomew, 2009). Affinché la democrazia possa attecchire in un nuovo territorio risulta quindi necessario comporre un quadro politico endogeno. Tale contesto deve possedere una cultura politica adeguata. La popolazione deve aver espresso il desiderio di instaurare una democrazia e sia stata coinvolta nel processo di ricostruzione del paese a seguito della caduta del regime precedente.
Bibliografia
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La mia esperienza al Festivaletteratura di Mantova 2024
Tra il 4 e l’8 settembre 2024 si è tenuta a Mantova la 27esima edizione del Festival della Letteratura, una kermesse che da anni ospita i migliori nomi della letteratura mondiale nella fantastica cornice della città lombarda.
Vi racconto la mia esperienza
Io mi chiamo Samuele Ferrari e grazie ad Unicollege ho avuto la possibilità di partecipare al festival come volontario, prendendo parte all’evento all’interno della Redazione testi e questo è un resoconto della mia esperienza.
Dal punto di vista organizzativo il Festival della Letteratura di Mantova è un meccanismo perfettamente oliato e ciò è possibile anche grazie ai volontari, che ogni anno dedicano tempo ed energie all’organizzazione dell’evento nei suoi minimi particolari. Partecipare è molto semplice, basta presentare la propria candidatura sul sito del festival e rispondere ad alcune brevi domande su quali mansioni si vogliono svolgere tra redazione, logistica, box office, info point, trasporto degli ospiti e molte altre. Nel mio caso ho avuto l’opportunità di prendere parte all’evento tra le fila della redazione testi, le mie mansioni consistevano nel seguire determinati eventi che mi venivano assegnati e poi scrivere un approfondimento sui temi che erano stati trattati, dopodiché il mio articolo sarebbe stato pubblicato nella sezione “approfondimenti” del sito del festival.
Autori di livello mondiale al Festival
Lavorare all’interno di una redazione anche se solo per pochi giorni è stata un’esperienza fantastica che mi ha permesso di ampliare molto il mio bagaglio culturale e soprattutto mi ha mostrato il lato pratico di ciò che sto apprendendo nel mio percorso di studi.
L’autrice Chiara Valerio risponde alle domande dei volontari
Per un appassionato di letteratura come me, poi, Mantova nella settimana del festival diventa il paese dei balocchi, ci sono incontri ed eventi con autori di calibro mondiale ininterrottamente per 5 giorni e grazie al pass da volontario che ho ricevuto ho avuto l’opportunità di partecipare a tantissimi interventi interessanti con autori come Emmanuel Carrère, Joel Dicker, Donatella di Pietrantonio, Federico Buffa e Chiara Valerio.
L’evento dedicato al giornalismo al Festival
Tra i tanti eventi a cui ho avuto la possibilità di partecipare ce ne sono stati alcuni che mi hanno colpito in maniera particolare, uno di questi è stato l’evento “Guerra ed etica del Giornalismo” con ospiti Sorj Chalandon ex reporter del giornale francese Libération e Lorenzo Tondogiornalista italiano e corrispondente del quotidiano inglese The Guardian, intervistati da Gigi Riva ex giornalista italiano inviato in Medio oriente e nei Balcani durante gli anni Novanta. Il tema centrale dell’incontro è stato quello del giornalismo di guerra e di come negli ultimi 30 anni sia cambiato profondamente insieme al mondo del giornalismo. I due ospiti hanno raccontato le proprie esperienze personali in Iraq e Ucraina per mostrare al pubblico del festival le difficoltà e gli impedimenti che si trovano davanti ogni giorno durante l’esercizio delle proprie funzioni di inviato di guerra. Il mondo del giornalismo è profondamente mutato negli ultimi decenni con l’avvento di Internet e dei social media che hanno reso tutto più veloce a discapitodell’accuratezza e della autorevolezza. Spesso la ricerca della verità e le pratiche di fact checking vengono messe in secondo piano pur di arrivare per primi su una notizia e se il tema sono degli aggiornamenti riguardanti un conflitto possiamo ben capire quanto possa essere pericolosa una notizia pubblicata senza una verifica.
E c’è di più…
Altri incontri molto avvincenti sono stati quelli che hanno esplorato il legame tra sport e letteratura, come “La danza dell’albiceleste” con Federico Buffa e Fabrizio Gabrielli in cui i due autori de “La Milonga del Fùtbol” hanno raccontato la storia del calcio in argentina dalla sua nascita fino al mondiale vinto in Qatar nel 2022, passando per la vita e la carriera di Diego Armando Maradona. Oppure “Il pugilato” con Antonio Franchini, in cui l’autore napoletano ha ripercorso la storia della boxe dalle Olimpiadi antiche fino a MuhammadAli e Joe Frazier.
Inoltre ho avuto l’occasione di prendere parte all’evento organizzato da Unicollege dal titolo “Tradurre senza troppo tradire” con ospiti Luciano Mazziotta, scrittore e traduttore e Bianca Tarrozzi, poetessa e traduttrice, il tema dell’evento è stato quello della traduzione delle poesie. Per i due ospiti la traduzione di testi poetici è un operazione di riscrittura difficoltosa e piena di insidie, un modo di dialogare con l’autore per metterlo e mettersi in discussione.
L’autore Joel Dicker racconta il suo approccio alla scrittura nell’evento Accenti
Una grande opportunità formativa
Voglio ringraziare Unicollege per avermi dato questa grande opportunità che mi ha aperto una finestra sul mondo del giornalismo e mi ha permesso di vivere dall’interno la realtà di una redazione.
Fin dall’antichità, lo sport è stato utilizzato come strumento diplomatico. In particolare, durante l’Antica Grecia, considerata la patria dello sport, i Giochi olimpici venivano sfruttati per istituire tregue sacre al fine di interrompere temporaneamente i conflitti bellici e permettere ai soldati/atleti di prendere parte alle competizioni, la cui importanza andava ben oltre i semplici risultati sportivi. Nonostante l’evoluzione della storia, anche oggi lo sport ha un’incredibile importanza e viene spesso utilizzato come mezzo politico da Stati, organizzazioni internazionali con lo scopo di mostrare il proprio potere a livello internazionale, ottenere l’appoggio di altri attori e mostrare i propri interessi.
Gli eventi sportivi al giorno d’oggi
Nel mondo di oggi, gli eventi sportivi internazionali, quali Giochi olimpici, campionati mondiali, ecc, rappresentano un enorme fonte di guadagno economico e potere per i Paesi organizzatori, i quali adottano qualsiasi tipo di strategia per ottenere l’organizzazione di tali eventi. All’interno dell’articolo verrà descritto il binomio tra sport e diplomazia e di come esso rientri all’interno delle strategie di soft power di un paese, soprattutto attraverso l’esempio pratico dei boicottaggi delle Olimpiadi di Mosca 1980 e Los Angeles 1984. Successivamente verranno illustrate le strategie di soft power del Qatar, facendo particolare riferimento alla sports diplomacy.
Sports diplomacy
Secondo il professore di Relazioni internazionali e Diplomazia presso l’università di Bond, Stuart Murray, per diplomazia sportiva si intende l’uso strategico e continuo dello sport, degli atleti e degli eventi sportivi da parte di uno Stato o di attori non statali, per raggiungere una grande varietà di obiettivi, che possono essere politici, commerciali, di sviluppo, di reputazione. La diplomazia sportiva rientra all’interno delle strategie di soft power di un Paese. Ogni attore internazionale detiene due tipi di potere: hard e soft power. Con il primo termine, si intendono i mezzi coercitivi, le minacce militari ed economiche e l’effettiva messa in pratica di quest’ultime. Con il secondo termine invece, si intende l’abilità di uno Stato di dare forma e modificare le preferenze di altri attori internazionali senza l’uso della forza. La forma di soft power maggiormente utilizzata è la diplomazia, di cui esistono diverse forme, tra cui la sports diplomacy.
Nello specifico…
Lo sport permette infatti agli attori internazionali di comunicare e collaborare con le altre Nazioni senza l’utilizzo della forza, rappresentando inoltre una fonte di reputazione. Grazie agli eventi sportivi internazionali, infatti, gli Stati possono dimostrare la propria supremazia e raggiungere obiettivi politici. Fin dall’antichità, sport e diplomazia hanno avuto un forte legame. Molto spesso in passato, l’organizzazione di eventi sportivi è stata utilizzata per tentare come surrogato dei conflitti armati, come ad esempio durante la Guerra Fredda. L’esempio più famoso di diplomazia sportiva è però è la “Diplomazia del ping-pong” tra Stati Uniti e Cina. Nel 1971, in occasione di un torneo internazionale di ping-pong, svoltosi in Giappone, avvennero diversi scambi tra la squadra americana e quella cinese, che portarono alla nascita di una relazione amichevole. Grazie ad essa e all’intervento dei rispettivi presidenti, nel 1979 gli Stati Uniti riconobbero ufficialmente il governo della Repubblica popolare cinese di Pechino come legittimo, dando inizio alle relazioni diplomatiche tra i due Paesi.
I boicottaggi delle Olimpiadi 1980 e 1984
Nel corso della storia, è possibile individuare diversi esempi di come gli attori internazionali abbiano preferito intraprendere strategie di diplomazia sportiva al posto di forme di potere coercitive. Tra questi, i più eclatanti sono i boicottaggi dei Giochi olimpici di Mosca 1980 e Los Angeles 1984. A partire dal XIX secolo, Russia e Gran Bretagna si sono contese l’Afghanistan attraverso diversi conflitti e dispute, fino al 1885, quando trovarono un accordo, attribuendo all’Afghanistan la funzione di Stato cuscinetto. Nel dicembre del 1979 l’Unione Sovietica decise di invadere il Paese poiché temeva di perdere la propria influenza. Il presidente americano Jimmy Carter condannò l’iniziativa e richiese al CIO, il Comitato olimpico internazionale, di rimandare i Giochi olimpici in programma per l’estate 1980 a Mosca e, ottenendo esito negativo, richiese al proprio comitato olimpico di boicottare i Giochi, ritirando i propri atleti dalle competizioni. Come conseguenza all’assenza degli Stati Uniti, altri 50 Stati decisero di aderire al boicottaggio. Terminata l’edizione del 1980, la Russia cominciò a preparare la squadra olimpica per l’edizione successiva che si sarebbe tenuta a Los Angeles. L’obiettivo del Paese era dimostrare la propria superiorità nei confronti degli Stati Uniti, attraverso le vittorie sportive, come strumento di soft power, durante gli anni della Guerra Fredda. Però, a causa di diversi problemi di sicurezza che avrebbero messo in pericolo gli atleti russi, la delegazione decise di non partire, boicottando a loro volta i Giochi olimpici. Nonostante il risultato fallimentare dei due boicottaggi, che permisero alle Nazioni ospitanti di mostrarsi ancora più forti, vincendo il medagliere delle proprie edizioni, essi fungono da esempio perfetto per evidenziare i vari tipi di potere che gli attori internazionali possiedono per mostrare le proprie posizioni.
Sportswashing
Sempre più spesso gli eventi sportivi vengono utilizzati con lo scopo di rafforzare il proprio potere e la propria immagine a livello internazionale. Per questa ragione, è molto probabile che gli attori internazionali cerchino di nascondere quanto di illecito si svolge nei propri Paesi attraverso tali eventi. Questa strategia viene denominata sportswashing, ossia l’utilizzo di sport, atleti, eventi sportivi e squadre al fine di distogliere l’attenzione da azioni non democratiche o di sfruttamento. Il termine venne coniato nel 2015 in occasione degli European Games da parte dell’Azerbaigian. Durante la campagna “Sports for Rights”, il governo venne accusato di allontanare l’attenzione dallo scarso rispetto dei diritti umani all’interno del Paese attraverso tale evento. Il termine venne poi reso famoso grazie ad Amnesty International che lo adottò nei confronti della famiglia reale di Abu Dhabi, accusandola di aver comprato la squadra del Manchester City per ripulire la propria immagine. Nonostante l’espressione sia molto recente, è possibile rintracciare esempi di sportswashing, già a partire dal XX secolo. Nel 1934, Mussolini organizzò la Coppa del Mondo di calcio e nel 1936 la Germania di Hitler fu il Paese organizzatore dei Giochi olimpici. Grazie allo sport, i due Paesi vollero mostrare la superiorità della propria razza, utilizzandolo come strumento di propaganda, nascondendo però le pratiche illecite che caratterizzavano i loro governi.
La diplomazia sportiva del Qatar
Nonostante sia un piccolo Stato, in termini di estensione geografica, il Qatar possiede enormi quantità di denaro grazie alle esportazioni di idrocarburi. Tale denaro permette al Paese di differenziarsi dagli altri piccoli Stati e di intraprendere azioni, anche azzardate, con il solo scopo di accrescere il proprio potere a livello internazionale e ritornare a ricoprire un ruolo di potere negli equilibri geopolitici internazionali, dopo l’ostracismo messo in atto dalle Potenze rivali vicine, quali Arabia Saudita e Iran. Il Qatar ha individuato lo sport come ambito nel quale investire per rafforzare il proprio potere e promuovere la propria immagine. Per mettere in atto la propria diplomazia sportiva, il Qatar ha deciso di adottare diverse strategie, tra cui: organizzazione di mega eventi sportivi, naturalizzazione di atleti stranieri e presenza nel mondo del calcio. Gli obiettivi principali del Qatar sono dimostrare la propria superiorità come microstato e perseguire pace, sicurezza e integrità. Attraverso la naturalizzazione, il Paese intende mostrarsi rilevante nello sport presentando delegazioni numerose negli eventi sportivi più importanti e ottenere migliori risultati grazie agli atleti stranieri naturalizzati. La sua presenza nel mondo del calcio invece permette al Paese di rafforzare il proprio potere, vista l’enorme importanza del calcio nel mondo odierno. Tale strategia è stata messa in atto attraverso l’acquisizione della squadra del Paris Saint-Germain che è poi riuscita ad ottenere notevoli risultati. Nonostante i buoni risultati la diplomazia sportiva viene spesso criticata, non riuscendo a rafforzare completamente il potere internazionale del Qatar.
La Coppa del Mondo 2022in Qatar
Il 2 dicembre 2010, la FIFA ha assegnato al Qatar l’organizzazione della Coppa del Mondo 2022. Ciò ha causato un peggioramento della considerazione dell’opinione pubblica nei confronti della stessa FIFA e del Qatar, accusato di aver comprato i voti necessari alla designazione. Il Qatar, infatti, non possedeva gli standard normalmente richiesti ai Paesi per organizzare i Mondiali di Calcio. Lo Stato si presentava come il Paese più piccolo ad aver mai ospitato una competizione di tale portata, aveva poche infrastrutture adatte alla competizione, il clima avrebbe reso difficile lo svolgimento dell’evento durante l’estate e non possedeva una tradizione calcistica tale da spiegare l’assegnazione. Attraverso l’organizzazione della Coppa del Mondo, il Qatar voleva attrarre turisti e investimenti stranieri e migliorare la propria reputazione nello scenario geopolitico internazionale, per mostrarsi come una società araba moderna.
Gli studi sui Mondiali 2022 in Qatar
Diversi studiosi e giornalisti affermano che, nonostante tutto, grazie all’organizzazione della Coppa del Mondo, il Qatar sia riuscito ad attrarre migliaia di turisti e spettatori, incrementando il proprio prestigio sul piano internazionale. Allo stesso tempo però, il Paese non è riuscito a ripulire la propria immagine e a migliorare la propria considerazione agli occhi dell’opinione pubblica, a causa delle problematiche interne vissute dal momento dell’assegnazione della Coppa del Mondo. Per adeguare il Paese alla competizione, il governo ha fatto costruire moltissimi hotel, appartamenti e anche diversi stadi. Nella costruzione di queste infrastrutture sono morte diverse migliaia di lavoratori migranti, mettendo in luce le problematiche interne al Paese relative al sistema della kafala, ossia una sorta di schiavitù a cui i lavoratori migranti sono sottoposti. Inoltre, la competizione ha permesso di sottolineare ulteriormente il mancato rispetto dei diritti delle donne, delle persone appartenenti alla comunità LGBTQ+ e dei lavoratori.
In conclusione…
A conti fatti, è possibile affermare che il Qatar ha ottenuto solo in parte i risultati che si prefiggeva con l’organizzazione della Coppa del Mondo. Se da un lato è stato in grado di mostrarsi rilevante sul piano geopolitico e di affermarsi come potenza regionale, non è però riuscito a migliorare la propria immagine. Nel corso dell’evento sono state infatti evidenziate ulteriormente le problematiche interne e ribadite le accuse di sportswashing.
Bibliografia e sitografia
Alcaro, Riccardo. Comelli, Michele. Matarazzo, Raffaello. “L’ascesa della Cina tra Europa e Stati Uniti”. Documentazioni per le Delegazioni presso Assemblee internazionali. 2005
Archer, Alfred. Fruh, Kyle. Wojtowicz, Jake. “Sportswashing: Complicity and Corruption”. Sports, Ethics and Philosophy. 1-18. 2022
Berzina-Cerenkova, Una Aleksandra. “Mega-Event Sports Diplomacy: a Strategic Communications Perspective”. NATO Strategic Communications Centre of Excellence. 2022
Brannagan, Paul Micheael. Reiche, Daniel. Qatar and the 2022 FIFA World Cup: Politics, Controversy, Change. Springer International Publishing. 2022
Elias, Tarek. “Qatar’s Sports Diplomacy as a Driver for International Visibility, Prestige and Branding”. Sciences Po Kuwait Program. 1-20. 2021
Ettinger, Aaron. “Saudi Arabia, sports diplomacy and authoritarian capitalism in world politics”. International Journal of Sport Policy and Politics. 2023
Gray, Colin S.. Hard Power and Soft Power: the Utility of Military Force as an Instrument of Policy in the 21st century. 2011
Murray, Stuart. “Moving beyond the Ping-pong Table: Sports Diplomacy in the Modern Diplomatic Environment”. PD Magazine, 2013
Nye, Joseph Jr.. “Public Diplomacy and Soft Power”. The ANNALS of the American Academy of Political and Social Science. 94-109. 2008
Ricci, Alessandro. “Geopolitica e sport. Riflessioni sui mondiali di calcio in Qatar”. Documenti geografici. 593-603. 2023
Sarantakes, Nicholas Evan. Dropping the Torch – Jimmy Carter, the Olympic Boycott and the Cold War. Cambridge University Press. 2022
Lo scoppio della guerra in Ucraina, avvenuto il 24 febbraio 2022, ha colto di sorpresa gran parte dei paesi e dell’opinione pubblica occidentali, che ormai avevano scordato la precedente crisi del 2014, apparentemente risolta con gli Accordi di Minsk. Nella prima parte di questo articolo verranno presentate tre possibili cause che comprendono le sfere storica, psicologico-sociale e geografica che potrebbero celarsi dietro l’attacco russo. Successivamente verrà svolta un’analisi sul futuro sviluppo del conflitto sotto il profilo delle relazioni che intercorrono tra le maggiori potenze coinvolte, quali Russia, Stati Uniti e Cina.
Russia e Ucraina, una storia comune
Lo stato ucraino ha ottenuto ufficialmente l’indipendenza nel 1991, prima di allora ha fatto parte dell’impero zarista russo, la cui origine risale alla “Rus’ di Kiev”, situato proprio nel territorio ucraino, e successivamente dell’Unione Sovietica. Per questo ancora oggi i due paesi condividono gran parte della loro eredità storica, culturale, religiosa e politica. Tuttavia, anche in seguito all’indipendenza, il Cremlino ha continuato ad esercitare una forte influenza su Kiev, dal punto di vista economico e politico. Secondo la visione di Kiev, è l’Ucraina che ha mantenuto l’eredità geografica, politica e culturale della Rus’ di Kiev. Mosca, al contrario, crede di essere l’erede politica, religiosa e culturale dell’antico regno (Marshall 2022) . Di conseguenza, come spiegato anche dallo stesso Putin nel proprio discorso precedente all’attacco, la Russia non potrà mai accettare un’Ucraina filo-europea e membro della NATO, in quanto la sua immagine di superpotenza verrebbe inevitabilmente danneggiata e incoraggerebbe altre repubbliche ex- sovietiche a cercare nuovi partner al di fuori di Mosca. La guerra in corso, quindi può essere vista anche come una dimostrazione di forza di Mosca principalmente nei confronti di Kiev, ma anche delle potenze occidentali e della Nato coinvolte.
La psicologia collettiva della società russa
La psicologia collettiva del popolo russo è influenzata dalla sua storia politica, dalla propaganda del proprio governo e dalle correnti di pensiero che suggestionano sia i cittadini che i membri delle istituzioni. La Russia è sempre stata governata da regimi autoritari, prima gli zar, poi la dittatura sovietica e ora il regime di Putin. Inoltre, l’identità stessa del popolo russo si fonda sulla potenza del proprio stato, intesa sia come potenza militare (hard power), che, come abilità di influenzare a livello economico e strategico l’agenda globale, (soft power). In seguito allo shock determinato dal crollo dell’URSS, e la simbolica vittoria della guerra fredda da parte degli USA, la Federazione Russa aveva bisogno di un nuovo leader dal “pugno di ferro” per restaurare la sua immagine di grande potenza, ovvero Vladimir Putin. La sua strategia di governo sia in politica interna, sia in politica estera, può essere riassunta nel termine ACM, Authoritarian Conflict Management, la quale prevede un assoluto dominio del governo sul territorio, sull’economia e sulle pratiche mediatiche volte a silenziare le voci contro il regime e promuovere la propaganda del governo.
Nel corso del conflitto in Ucraina…
La propaganda del Cremlino ha avuto come duplice obiettivo quello di legittimare l’attacco all’Ucraina agli occhi dei cittadini russi e scoraggiare l’insurrezione di crisi o colpi di stato in altre ex-repubbliche sovietiche, dimostrando che chi vuole minacciare la Russia subirà lo stesso destino dell’Ucraina (Peters 2024) . In questo modo Putin ha stabilito un’immagine di sé stesso come un “presidente in guerra”, un ruolo che certamente in alcuni momenti del suo governo gli è valso l’approvazione e il sostegno della gran parte dei cittadini russi, come durante l’annessione della Crimea nel 2014 e i primi mesi della guerra in Ucraina nel 2022, ma che dall’altro lato implica che il suo potere sia indissolubilmente legato alla guerra e alla vittoria e quindi sia costretto a portare avanti conflitti per mantenere il suo potere intatto.
Il senso di accerchiamento della Russia
L’aspetto geografico determina la strategia geopolitica e militare di uno Stato. La politica estera di Mosca si concentra da sempre sull’idea di essere accerchiata da nemici che minacciano la sua sovranità (Editoriale 2016) . Il territorio dello Stato russo è il più esteso al mondo e ciò comporta notevoli difficoltà riguardo la sua gestione, perciò, la strategia del Cremlino per prevede un dominio assoluto dello stato sui cittadini che lo abitano e sulle attività che lì vengono svolte. È possibile quindi affermare che la politica estera russa sia incentrata sul mantenimento della propria sicurezza a qualunque costo, come affermato anche dalla teoria esposta da Kenneth Waltz, secondo cui la sicurezza all’interno di un sistema anarchico è il principale obiettivo di uno stato, il quale per conseguirla è disposto a muovere guerra al fine di modificare gli equilibri internazionali a proprio favore (Waltz 1979) . Il Cremlino, di fatto, è consapevole che il punto più vulnerabile del suo immenso territorio è la pianura ad ovest di Mosca, la quale si estende senza interruzioni geografiche fino al cuore dell’Europa. Il governo dell’Unione Sovietica a tal proposito aveva ideato un sistema di Stati cuscinetto concentrati nell’Europa dell’est, primo fra tutti l’Ucraina. Kiev ha rappresentato per decenni una barriera protettiva per la Russia, per cui l’avvicinamento alla UE e alla Nato ha scatenato le preoccupazioni del Cremlino.
La centralità dell’Ucraina
La centralità strategica dell’Ucraina non è solamente una convinzione di Mosca. La teoria di H. J. Mackinder, che fa perno sull’importanza dell’Heartland per una potenza che vuole dominare il mondo, identifica quest’area strategica proprio nell’est Europa (Mackinder 1904) . Conseguentemente, l’importanza e l’influenza di queste due teorie, unite all’ossessione dell’accerchiamento della Russia contribuiscono, in parte, a spiegare perché Mosca non riesce ad accettare una Kiev indipendente o, persino, ostile al Cremlino, tanto da decidere di muovere guerra contro il suo storico alleato.
Nuovi rapporti strategici tra Cina, Stati Uniti e Russia
Ora che tutte le forze militari e politiche russe sono concentrate sul conflitto ucraino, altre zone di influenza di Mosca, come l’Asia centrale con le ex-repubbliche sovietiche, si rivolgono ad altre potenze per soddisfare i loro interessi. In questa situazione la Cina la fa da padrone, sia per aver avviato importanti progetti economici e infrastrutturali lungo la via della Seta, sia per essere al contempo diventata il principale partner economico e militare della Russia (Fabbri 2023) .
Inoltre…
L’avvicinamento di Pechino a Mosca ha suscitato reazioni diverse nel mondo occidentale. In primo luogo, è stato presentato come l’inizio di un nuovo asse strategico e una minaccia sia per la guerra in corso sia per i rapporti futuri con Pechino (Filippo Fasulo 2022) . Recentemente, tuttavia, è apparso chiaro come Pechino stia sfruttando questa temporanea vulnerabilità economica e militare di Mosca a proprio vantaggio. Da un lato è diventato il nuovo maggior fruitore di gas e petrolio russi, dall’altro grazie alla propria potenza economica e strategica, sta occupando i vuoti di influenza lasciati dalla Russia in Asia impegnata in un lungo conflitto d’attrito. Inoltre, i rapporti tra Washington e Pechino non si sono mai interrotti del tutto, Nonostante la crisi dei dazi, e le posizioni strategiche opposte nel conflitto ucraino, le due potenze stanno continuando a collaborare sul piano economico e anche su quello strategico, specialmente in seguito ai rapporti che Mosca sta stringendo sia con Nuova Delhi che Pyongyang, che rappresenterebbero una minaccia per la Cina in territorio asiatico, sia per le sue ambizioni sul pacifico, sia per il progetto della via della Seta. Di fatto, con il summit svoltosi lo scorso gennaio tra i leader Xi Jinping e Biden, un nuovo passo avanti è stato compiuto, e un ulteriore spazio di dialogo è stato aperto in seguito all’incontro tra i due rispettivi ministri degli esteri (Carrai 2024) . Tuttavia, i rapporti tra i due paesi in relazione al conflitto e alla Russia stessa potrebbero cambiare in seguito a una possibile vittoria di Donald Trump alle prossime elezioni americane di novembre. Questo cambio di leadership comporterebbe una diminuzione degli aiuti all’Ucraina e una concentrazione maggiore di Washington su Pechino, sia in termine di affari, sia in termini militari.
Bibliografia
Carrai, Maria. «Stati Unitie e Cina: la ripresa del dialogo dopo San Francisco.» Ispi, 2024.
Editoriale . «Due più due fa cinque?» Limes rivista italiana di geopolitica, 2016: 7-28.
Viaggio linguistico-sociale in una regione ricca di storia e cultura
Di Veronica Moneghini
È luogo comune pensare che in Trentino si parli correttamente il tedesco: in realtà questa è una peculiarità dell’Alto Adige e non di tutta la regione!
Io sono nata ed ho sempre vissuto nella provincia di Trento e mi viene frequentemente chiesto come mai non parli bene il tedesco come l’italiano. Penso quindi che sia doveroso fare chiarezza sulla nostra bellissima regione: il Trentino-Alto Adige, spesso protagonista di stereotipi e falsi miti.
In questo breve articolo vi parlerò della storia della regione e delle lingue che vengono parlate sul territorio, le quali la rendono così caratteristica. Prima di iniziare però, è necessario che sia ben chiara la distinzione tra il Trentino, la cui provincia è Trento, e l’Alto Adige o Südtirol, la cui provincia è invece Bolzano.
Perché il Trentino-Alto Adige è una regione a statuto speciale?
L’autonomia speciale del Trentino e del vicino Alto Adige, con cui il Trentino forma la regione autonoma, è nata a seguito dell’accordo italo-austriaco sottoscritto a Parigi il 5 settembre 1946 da Alcide De Gasperi, allora presidente del consiglio italiano e Karl Grüber, ministro degli esteri austriaco. Il testo dello Statuto è stato poi sottoposto e approvato dall’assemblea costituente italiana che è successivamente diventata la “Legge Costituzionale n. 5” promulgata il 26 febbraio 1948. Come è possibile immaginare, l’autonomia dell’attuale regione non può essere nata dall’oggi al domani, né può essere solamente il frutto di un intervento legislativo. Alle origini della nostra autonomia c’è una storia secolare, fatta di vicende complesse, tradizioni, che le comunità hanno saputo gelosamente conservare a dispetto dei rivolgimenti politici e sociali.
Val di Fumo (TN)
La storia della regione Trentino-Alto Adige
I popoli trentino e sudtirolese sono uniti da molteplici legami storici e culturali. L’autonomia della regione rappresenta quindi in primo luogo una conquista per entrambi. Il collocamento di questo territorio, posto lungo l’asse del Brennero insieme all’abitudine al contatto e al confronto fra genti diverse, hanno fatto sì che l’autonomia avesse il suo fondamento nel rispetto e nella valorizzazione delle minoranze. L’origine del lungo e complesso percorso per ottenere lo Statuto speciale risale all’epoca medievale. In quel periodo il territorio godeva dello status di principato vescovile sottoposto all’autorità imperiale e tuttavia dotato di capacità politico-amministrative proprie. Passando ad epoche a noi più vicine, dopo la definitiva soppressione del principato avvenuta nel 1813 a seguito degli sconvolgimenti apportati dalla guerre napoleoniche, la regione che oggi conosciamo divenne parte della contea austriaca del Tirolo all’interno dell’impero austro-ungarico. L’avvento della prima guerra mondiale portò profonde lacerazioni e sofferenze tra i militari e la popolazione civile. Al termine di questo periodo drammatico il “Tirolo storico” venne nuovamente diviso. Il Trentino così, assieme all’Alto Adige/Südtirol, venne incorporato nello Stato italiano tramite la sottoscrizione del trattato di Saint Germain.
Skiarea Campiglio TN
La lotta per l’autonomia
Per oltre vent’anni la dittatura fascista ha soffocato qualsiasi tipo di diritto per le minoranze. Parliamo di ladini, mocheni e cimbri in Trentino, ladini e sudtirolesi in Alto Adige. Fu così repressa anche qualsiasi speranza autonomistica. Solo al termine della Seconda Guerra Mondiale si tornò finalmente a parlare di autonomia del territorio. E fu riconosciuta grazie alla firma dell’accordo di Parigi tra Alcide De Gasperi, che nel frattempo era stato nominato capo del governo italiano, e dal sopracitato austraico Karl Grüber.
Il primo Statuto di autonomia non rappresentò tuttavia la completa soddisfazione alle richieste di autogoverno avanzata dal territorio, nonostante questo senza dubbio rappresentasse un indicibile passo avanti rispetto all’epoca precedente. Iniziò quindi una nuova stagione di rivendicazioni, la quale fece da sfondo a scenari drammatici di cui regione porta tuttora le cicatrici.
La sottoscrizione del secondo Statuto, avvenuta nel 1972, accolse finalmente le richieste delle due province Trento e Bolzano. Si avviò così una nuova stagione protagonista di rapporti pacifici tra Trentino-Alto Adige e il governo centrale di Roma.
Rifugio Ai Brentei 2182 s.l.m.(TN)
La questione della lingua in Trentino-Alto Adige
Nonostante le province di Trento e di Bolzano facciano entrambe parte della regione a statuto speciale, presentano differenze che riguardano aspetti politici, linguistici e culturali.
Tornando quindi alla fatidica domanda: “In Trentino si parla il tedesco?”. La risposta corretta è: “Non proprio”. Questo perché la maggior parte degli abitanti della bella regione è di madrelingua italiana. È proprio vero però che sul nostro territorio si possono sentire parlare lingue diverse, ovvero quelle delle minoranze sparse nella regione. Una di queste è il ladino, derivante dal latino, il quale si sviluppa in diverse varianti a seconda della posizione geografica tra Svizzera, Alto Adige e Trentino. Il cimbro e il mocheno invece, sono due minoranze che derivano dalla lingua tedesca. Si sono sviluppate in seguito ad immigrazioni risalenti all’epoca medievale per la ricerca di nuovi appezzamenti o per la ricerca di un lavoro come minatori (“canopi”).
Conclusioni
Abbiamo quindi appreso perché il territorio del Sud Tirolo veda la maggior parte della propria popolazione parlare perfettamente il tedesco, a fianco dell’italiano. La lingua fa parte dell’identità di questo territorio. Non è quindi fuori dal comune sentir pronunciare “buongiorno” seguito da un “Gutenmorgen” quando si ordina un caffè al bancone del bar. Il fattore bilingue è uno dei segni dell’identità dell’Alto Adige, in cui sia italiani che tedeschi si sentono a casa. Per quanto riguarda il Trentino invece i trentini si riconoscono come italiani. Ed è per questo che non tutti sentono la necessità di portare avanti lo studio della lingua tedesca oltre la scuola dell’obbligo, preferendo magari l’approfondimento di altre lingue.
Una delle tante differenze che caratterizzano le due province è che l’attestato del bilinguismo C1, il quale certifica le conoscenze linguistiche in base al QCER. Questo è un requisito fondamentale per poter lavorare a tutti i livelli funzionali della Pubblica Amministrazione in Alto Adige, mentre in Trentino non è necessario disporne.
Un’altra differenza è che le famiglie possono decidere di iscrivere i propri figli ad una scuola in lingua tedesca o in lingua italiana. Nella zona più a sud della regione invece, non esiste questa possibilità. Si cerca però di potenziare l’insegnamento della seconda e terza lingua attraverso il CLIL, progetto che consiste nell’insegnamento di alcune materie (nel caso del mio liceo, di storia dell’arte e scienze) in lingua tedesca o inglese da parte degli insegnanti di ruolo i quali vengono poi affiancati da docenti madrelingua straniera.
Abbiamo quindi visto una presentazione sulle differenze e somiglianze presenti all’interno di questa bellissima regione. Mi auguro di aver fatto chiarezza sui dubbi dei lettori in modo che, se avranno modo di visitare per la prima volta il Trentino-Alto Adige o di ritornarci, saranno a conoscenza delle sue caratteristiche e peculiarità.